110 – Morire da emeriti (30.04.06)

Il pensiero della settimana, n. 110

 

Nel Talmud si legge che c’è un solo modo per nascere mentre ce ne sono ottocento per morire. Nell’era della tecnica la prima affermazione ha perduto di nitore. Con tutto ciò resta indubbia l’eccedenza delle maniere di morire rispetto a quelle di nascere. La perversa fantasia della natura ha inventato malattie in gran copia. Innumerevoli, e non di rado banali, sono i tipi di morte accidentale. Molteplici anche i mezzi per dare o darsi la morte. Il corpo umano a volte appare fragilissimo; altre, sorprendentemente resistente. Tuttavia alla fine, per ricorrere al triviale lessico giornalistico, si dovrà sempre concludere che  «non ce l’ha fatta».

La varietà con cui la morte si presenta di fronte ai viventi non sempre consente loro di esercitare l’arte preziosa e difficile del congedo. Per farlo occorre essere posti nelle condizioni di vivere la propria morte. Perché questa possibilità si dischiuda sono necessarie tanto una robusta armatura spirituale quanto la comparsa di circostanze indipendenti dalla nostra volontà. Anche qui si potrebbe evocare la contesa tra  virtù e fortuna prospettata in altra sede da Machiavelli. La vecchia, dimenticata preghiera che chiedeva di essere scampati da una morte repentina può essere letta, oggi, anche sul versante del congedo e non solo su quello devozionale del  «salvarsi l’anima».

Non sempre la morte bussa alla porta; a volte essa irrompe senza preavviso alcuno. Lo si sa. Questa consapevolezza può alimentare uno stile di vita (l’«apparecchio alla morte» direbbe  S. Alfonso), non una maniera di vivere il proprio distacco da questa terra. Quest’ultima eventualità infatti è legata a circostanze che non concedono ammorbidimenti. Proprio per questo le parole consapevoli che suggellano un’esistenza hanno qualcosa di unico. Esse rappresentano non di rado il frutto più maturo di un’intera vita. Così è stato anche per Gesù. Il fatto stesso che i quattro evangelisti non siano concordi nell’individuare quelle parole, conferma, paradossalmente, che ciascuno di loro ha affidato a esse il senso di un messaggio profondo che si spinge al di là della cronaca fattuale.

Il valore di una morte dovrebbe essere sempre ricondotto alla semplice e nuda creaturalità. Non dovrebbe cioè dipendere dalle cariche e dalle funzioni che si sono ricoperte, a meno che non si tratti di relazioni che, una volta instaurate, non concedono dimissioni. L’esempio per eccellenza è il nesso genitori-figli. La morte di una madre, di un padre, di una figlia, di un figlio rappresenta la rottura di un rapporto che coincide con la vita stessa. Ciò rende più accettabile il fatto che un figlio veda morire il proprio genitore di quanto non sia il contrario. Questa connessione fa sì che il congedo raggiunga l’apice quando una madre o un padre è nelle condizioni di vivere il distacco dai propri figli. Ciò vale anche quando si tratta di maternità o paternità spirituali o culturali.

Alcuni hanno comprensibilmente evocato questa dimensione in relazione alla morte di papi. Per qualcuno di loro, in effetti, il commiato dalla vita è stato parte integrante del loro magistero. Ciò  avviene anche per alcuni vescovi capaci di trasformare la propria malattia mortale in un insegnamento. Sulla scia di Gesù, quei pastori sono riusciti a rivolgere alla loro comunità «discorsi di addio» (Gv  13,31-16,33). In epoca recente si possono citare i casi di Franceschi a Padova, di Bello a Molfetta, di Savio a Belluno-Feltre.

Un tempo la diocesi vedeva morire sempre il proprio vescovo. Ora non è più così. Nel concilio Vaticano II si optò per un «mandato a termine» (cfr. l’accuratissima ricostruzione presente in Massimo Faggioli, Il vescovo e il concilio, il Mulino, Bologna 2005). In seguito le dimissioni furono fissate  a 75 anni.  L’età media si allunga anche per gli appartenenti all’ordine episcopale. Attualmente, su 4.870 vescovi esistenti, ben 1.045 sono emeriti. A quanto si è saputo, il tema dei vescovi pensionati è stato affrontato anche nel concistoro straordinario di fine marzo. Oltre alle variabili condivise con tutti gli esseri umani, un vescovo, per affidare alla propria morte un ruolo «magisteriale», deve avere la sorte di chiudere gli occhi all’esistenza prima dello scoccare dell’età della pensione. Anche la morte di un emerito può toccare e non lasciare indifferenti; ma è altra cosa, è altro tipo di congedo. In quei casi nella comunità prevale il ricordo e forse un involontario confronto con il successore.  La scelta conciliare ha dalla sua molte ragioni, ma è dotata anche di ricadute ben precise. Tra esse, e non solo in relazione al morire, vi è l’inevitabile tendenza a diminuire il senso della paternità connessa alla funzione episcopale e ad aumentare la distanza tra il vescovo di Roma e i titolari di tutte le altre diocesi.

Piero Stefani 

110 – Morire da emeriti (30.04.06)ultima modifica: 2006-04-29T15:30:00+02:00da piero-stefani
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