101 – La Palestina di Hamas e l’Israele del dopo Sharon (26.02.06)

Il pensiero della settimana, n. 101.

 

  Lo spessore a suo modo paradigmatico di cui, almeno da quarant’anni a questa parte (vale a dire dalla guerra dei Sei giorni), è dotata la questione israelo-palestinese sta nell’aver anticipato su molti fronti situazioni che, con le debite differenze, trovano parziale riscontro anche altrove. Il primo fattore che salta agli occhi è di essere un luogo di contatto fisico tra l’Occidente e un mondo «altro» che non può né ignorare l’Occidente né identificarvisi. In questo quadro gli ultimi decenni hanno visto sempre più ampliarsi, nella composita società palestinese, gli influssi islamici. La tendenza è aumentata in ragione inversa all’impotenza e all’umiliazione sociale e politica in cui si trovavano i palestinesi. La crescente presa dell’islam deriva dal fatto di essersi imposto come un’ideologia, diventando un fattore di mobilitazione e di identificazione collettive. Si tratta di un movimento volto ad operare nella storia e a dare forza e motivazioni a un gruppo che altrimenti avrebbe da mettere sul proprio conto tratti quasi solo perdenti.

 Sul ‘certificato di nascita’ di Hamas si legge: Gaza 9 dicembre 1987 per iniziativa di sei Fratelli musulmani di ascendenza giordana. Scegliendo fin dal principio la lotta armata, Hamas ha seguito le orme della Jihad islamica (fondata nel 1980). Per i Fratelli musulmani palestinesi di osservanza egiziana il punto chiave stava nell’attuare la rislamizzazione della società; alla fine proprio questa via avrebbe condotto alla liberazione della Palestina. Per la Jihad era invece prioritaria la lotta armata. Hamas compie una sintesi fra le due tendenze. Questa opzione è risultata vincente. Così facendo, la lotta contro il nemico sionista si coniugava con la denuncia della dirigenza palestinese. La scelta ha consentito ad Hamas di restare una formazione nazionalista religiosa imperniata su una questione territoriale.

Nelle elezioni legislative del 25 gennaio scorso Hamas ha conquistato, nel complesso, 76 seggi contro i 43 di al Fatah di Abu Mazen. La sconfitta severissima del gruppo dirigenziale storico dell’ANP assume la dimensione di vera e propria catastrofe se si tengono in considerazione i risultati delle liste locali. In quest’ambito sia a Gaza sia in Cisgiordania la vittoria di Hamas è stata schiacciante: 48 seggi contro 16 (altri 4); molto meno netto il divario sulla lista nazionale (30 seggi contro 27, altri 9). Il radicamento locale di Hamas  appare fuori discussione.

Se si prende alla lettera  la carta di Hamas approvata nel giugno del 1988, gli spazi di manovra per un’apertura di trattive con Israele sono nulli. Il suo articolo 8 indica che per il militante: «Dio è il suo scopo, il Profeta è il suo capo, il Corano è la sua costituzione, il jihad il suo metodo e morire in nome di Dio è il suo più caro desiderio». L’obiettivo è «liberare la Palestina» che appartiene tutta ai musulmani. Gli articoli 22 e 29 rispolverano vecchi armamentari del più triviale antisemitismo europeo, ivi compresi i Protocolli dei Savi di Sion e il riferimento alle congiure giudaico-massoniche  a cui sarebbero imputabili lo scoppio delle guerre mondiali, la creazione dell’Onu e del diritto internazionale «per governare il mondo». Questo linguaggio non va sottovalutato. La sua applicabilità è in effetti nulla; tuttavia esso è spia tanto di un drammatico ritardo culturale quanto del consenso goduto da queste modalità di espressione. D’altra parte tali riferimenti confermano l’esistenza da parte degli islamisti di un debito, quanto meno retorico, nei confronti dei più foschi tratti della (in)civiltà europea (osservazione che, a suo modo, confuta la versione ingenua dello scontro tra civiltà). Le parole scritte sulle carte dicono però qualcosa, non tutto.

La stessa partecipazione di Hamas a elezioni rese possibili dagli accordi internazionali stipulati dalla ANP, significa di per sé un’accettazione pratica dell’esistenza d’Israele. Del resto attualmente i suoi dirigenti parlano con regolarità del ritiro di Israele entro i confini del 1967 in cambio di una «lunga tregua». Su questo sfondo la questione dei finanziamenti internazionali ai palestinesi è rilevante. La loro drastica abolizione perorata dal segretario di Stato americano – finora respinta sia dall’Egitto sia dall’Arabia Saudita – rafforzerebbe inevitabilmente l’ala radicale sensibile alle lusinghe iraniane. In realtà, proprio come a suo tempo avvenne  nel caso dell’Olp, anche all’interno di Hamas si nota una polarizzazione tra la componente meno estrema operante nei territori e quella più intransigente costituita dai leader in esilio. La scelta di affidare a Ismail Hanyeh l’incarico di formare il nuovo governo va letta in questa direzione. Capolista alle elezioni legislative, Hanyeh è in genere considerato un pragmatico, ma forse sarebbe meglio qualificarlo come una voce profondamente radicata nella società palestinese e in particolare a Gaza. Come insegnano le vicende precedenti, le trattive si fanno con chi rappresenta effettivamente i palestinesi. Anche l’Olp in passato è stata considerata solo un’organizzazione terrorista con cui non si poteva trattare. Arafat non poteva neppure mettere piede negli Stati Uniti reaganiani. Poi non si è stati costretti a sceglierla come interlocutrice. Si possono chiedere precondizioni rigorose solo alla controparte con cui si è disposti a trattare. Per questa via si può anche allargare il varco formato dalle spinte divaricanti presenti nella stessa Hamas. Senza farsi illusioni: i retaggi della stagione terroristica e della retorica martiriale (in Occidente, kamikaze) sono senza dubbio potenti e non di breve durata. Lo stesso può dirsi per la presenza di sentimenti e azioni antisraeliani e antioccidentali in seno a buona parte della popolazione palestinese. Sono nodi con cui in ogni caso bisogna dapprima convivere e poi cercare lentamente di allentare.

Sull’altra sponda vi è l’Israele del dopo Sharon. Questo uomo d’azione ridotto a un’impotente sopravvivenza lascia un vuoto difficile da colmare. Salito al potere nel 2001 la sua azione di governo ha lasciato il segno nella storia israeliana soprattutto in relazione a quattro punti: l’operazione «Scudo difensivo» del 2002, la costruzione del muro di separazione e di inglobamento che divide i territori israeliani da quelli palestinesi, lo sgombero di Gaza e, da ultimo, lo sconvolgimento del sistema politico israeliano con la nascita di un nuovo partito, Kadima. Le ripetute irruzioni nei territori palestinesi, l’assedio di Arafat nel suo semidistrutto quartier generale di Ramallah, i successivi  assassini mirati dei capi di Hamas a Gaza voluti da Sharon si sarebbero rivelati via senza sbocco se avessero rappresentato una scelta di lungo periodo. Si è trattato di atti che hanno lasciato retaggi pesanti; tuttavia essi rientravano nell’operazione di rassicurare l’opinione pubblica israeliana di essere guidata da un uomo energico capace di intervenire con decisione. Con questa sua prima fase di governo, Sharon ha definitivamente convinto la maggior parte della popolazione israeliana di avere un capo deciso e sicuro. La conquista di questo credito ha consentito, passando per l’erezione del muro, di effettuare lo sgombero di Gaza in modo sostanzialmente pacifico. Il vecchio motto della sinistra «pace per i territori» veniva così ridefinito in modo da essere condotto all’insegna della decisione autonoma e della sicurezza d’Israele. Su questo fronte Sharon non lascia per ora eredi.

La creazione di un partito che occupa il centro dello schieramento politico emarginando i due grandi protagonisti dell’intera storia politica dello stato d’Israele, laburisti e Likud, è stata l’ultima operazione vincente condotta da Sharon. Il vero problema  di Kadima non sarà vincere le elezioni – l’esito sembra assicurato – quanto far crescere il livello di leadership dell’attuale capo del governo ad interim, Olmert. Si potrebbe dire: «il partito è fatto, ora bisogna fare il leader».  La massima difficoltà, ma anche la più grande opportunità che si presenta a Olmert per diventare  un capo all’altezza di quanto la storia gli chiede, è costituito dal formidabile mutamento avvenuto dopo l’uscita di scena di Sharon: la vittoria di Hamas. Le prime reazioni di Olmert sono state finora comprensibilmente interlocutorie. Se, dopo le elezioni di fine marzo, saprà far fronte con efficacia a questa inedita situazione, l’ex sindaco di Gerusalemme potrà diventare un leader nazionale non schiacciato dall’ombra massiccia del suo grande predecessore.

 Piero Stefani

 

101 – La Palestina di Hamas e l’Israele del dopo Sharon (26.02.06)ultima modifica: 2006-02-25T16:15:00+01:00da piero-stefani
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