100 – Ombre sessantottesche (19.02.06)

Il pensiero della settimana, n.100

 

Vi sono incubi  personali e ve ne sono di collettivi. I tempi dei primi dipendono da percorsi soggettivi contraddistinti da pulsazioni variabili radicate nella biografia spirituale di ciascuno, i secondi hanno riscontri più pubblici e verificabili, i loro tramonti sono quindi meno imprevedibili. Esistono però casi in cui le vicende individuali e quelle collettive, incrociatesi nel loro sorgere, divergono nel loro declinare. L’orizzonte generale può aver mutato più e più volte colore, tuttavia quello personale è ancora bloccato a fasi ormai trascorse. In questi casi si legge il presente con occhi legati a un passato che resta attuale solo per se stessi e non per la società. Questa sfasatura è, come è facile comprendere, frequente soprattutto nelle persone anziane per le quali è più arduo comprendere  un oggi  in rapido cambiamento. In tal caso i traumi di un passato recente eppur già trascorso sono ancora inscritti, anacronisticamente, all’ordine del giorno.

Eletto al soglio pontificio in là negli anni, Benedetto XVI sembra tuttora dominato da quello che – come attestano le biografie – appare il dramma più autentico della sua vita: il 68. Quell’anno fatidico ha imposto da un lato stili di vita liberatori-edonistici e dall’altro l’utopia di poter risolvere per via politica i nodi cruciali dell’esistenza umana. A tutti appare evidente quanto ciò sia lontano dal clima odierno. L’edonismo dilaga, tuttavia esso ha perso ogni nesso con la volontà di esprimere un senso di liberazione. Privato della spinta legata al desiderio di sottrarsi a consuetudini costrittive ed esonerato dal corrispettivo sogno di creare nuove modalità di vita,  l’edonismo vive una stagione crepuscolare: i fremiti della primavera hanno lasciato il posto a effimere estati di S. Martino. Dal canto suo la politica ha perso ogni pretesa di mutare il reale e di rifondare la convivenza civile. I problemi concreti sono ormai semplici pretesti per intraprendere una partita giocata e vinta nel mondo dei media e non in quello delle effettive condizioni di vita. Nessuno sogna più di mutare la società. Quando l’ambizione massima si concentra tutta nel vincere e non nel governare, non vi è spazio per lasciarsi conquistare dall’idea di risolvere, per via politica, i problemi della vita collettiva. L’immaginazione oggi si esercita e si esaurisce  tutta nella spettacolarizzazione. I have a dream è un detto che non alimenta più alcun programma. La politica spettacolo esige piuttosto un’altra formulazione: I am a dream.

Deus Caritas est, la prima enciclica di Benedetto XVI, è dominata da due retropensieri: nella prima parte si tratta di rispondere ai pericoli di un eros libertario che vuole emanciparsi dalla disciplina alta dell’agape, nella seconda occorre replicare a chi ritiene che la via politica della giustizia tolga significato all’opzione assistenziale della carità. Almeno per quanto concerne l’Occidente, nell’uno e nell’altro caso, è una battaglia contro i mulini a vento: il centro delle questioni non sta più lì. L’impostazione dell’enciclica potrebbe rientrare nella semplice categoria di un indolore anacronismo se non portasse con sé ripercussioni teologiche inattese e sorprendenti.

I lettori più liberi e avveduti sono stati colpiti dalla debolezza fondativa di un testo che vuole celebrare l’amore come essenza stessa di Dio e tace, quasi del tutto, la dimensione trinitaria che, per la tradizione cristiana, della caritas è radice prima ed eterna. La più  probabile ragione di tale silenzio sta nel fatto che se si fosse partiti dal legame amoroso tra Padre, Figlio e Spirito Santo il primato indiscusso sarebbe toccato, fin dal principio, all’agape, vale a dire all’amore che non cerca la propria completezza (già posseduta) ma che, proprio in virtù di quella originaria pienezza, si china verso l’altro da sé . Partire dall’agape porterebbe però a parlare di un fecondo amore materno e non di uno slancio di amanti che anelano al proprio completamento. La preoccupazione di Benedetto XVI sta invece nel voler dare all’eros una sedicente consistenza agapica e sponsale. Per questo deve partire dal basso. Il suo intendimento è di esaltare l’unità e non già di celebrare un altro che, proprio perché intimamente legato a noi,  è accolto e amato nella sua irriducibile diversità. Solo la prospettiva che esalta un unitario completamento può far comprendere la strana analogia proposta dall’enciclica  tra monoteismo e matrimonio monogamico (cfr. n. 11).

La seconda narrazione genesiaca della creazione dell’uomo pone all’origine l’esperienza della solitudine. L’adam non ha un aiuto che gli stia davanti. Per questo Dio, privandolo di una parte del suo corpo, gli crea una compagna come suo di fronte. La comunione e l’alterità trovano qui la loro congiunzione; l’una non può darsi senza l’altra. I due saranno una carne sola, ma resteranno due (Gen 2,24). Papa Ratzinger propone invece un improbabile accostamento tra questa narrazione biblica e il mito platonico in cui l’eros è visto come ricerca della propria metà smarrita. Gli esseri umani erano doppi, ma poi furono divisi, ora ognuno cerca la propria metà perduta (cfr. Platone, Il Convito XIV-XV, 189c-192d). Secondo Benedetto XVI la ricerca della completezza costituirebbe il tratto accomunante tra i due racconti. Si tratta di un abbaglio. In Platone si prospetta l’assorbimento della diversità dell’unità; nella Genesi, di contro, si afferma l’inedita creazione di un’alterità feconda e comunionale. Trovare ciò che si è perduto è ben altro dall’incontrare chi non si è mai conosciuto. La linfa del mito platonico è strutturalmente omosessuale. Non a caso nel testo del Convito Aristofane parla di tre specie di umanità originaria: maschio-maschio, femmina-femmina; maschio-femmina; ognuna delle quali, una volta scissa, cerca la propria metà (Convito 191d-193a). Tuttavia, anche a prescindere da questa precisazione, è la stessa idea di completamento come ritorno all’unità perduta a far prevalere omogeneità e fusione  su differenza e  relazione. Per quanto singolare possa apparire, un papa che non riesce a giudicare l’omosessualità se non come grave disordine morale propone, inconsapevolmente, all’attenzione dei propri fedeli un mito legato nelle sue più intime fibre al primato dell’omogeneo.

Piero Stefani

 

 

100 – Ombre sessantottesche (19.02.06)ultima modifica: 2006-02-18T16:20:00+01:00da piero-stefani
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