13 – Le beatitudini (22.02.04)

Il pensiero della settimana n.13

 

Il segreto del senso  è sepolto nelle parole. Il fatto perciò che in più lingue il termine «felicità» abbia a che fare con la «buona sorte» e con l’accadere (si pensi alla parentela che vi è in inglese tra happy e  to happen – accadere) indica la consapevolezza che la felicità umana non dipenda solo da se stessi; non si tratta di una semplice autorealizzazione. Tuttavia se è connessa all’accadere e alla sua imprevedibilità, la si può perdere con un rovescio di fortuna: «come una nube è svanita la mia felicità» (Gb 30,15).

In Giobbe non si dice che la felicità è tramontata come il sole; si afferma che si è dissolta come una nube. Il sole non si estingue, come è tramontato di nuovo spunterà; la nube invece è per sempre dissolta. Ne possono tornare altre, non quella. Per l’antico Giobbe l’affermazione valeva per la prosperità, per il benessere goduto in pienezza. I moderni estendono questa sensazione anche al sogno e alla speranza di felicità da loro ritenuta il massimo raggiungimento conseguibile. A essere permanente come una roccia è quindi solo l’infelicità: «Prima di provar felicità, o vogliamo dire un’apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci di speranza» ma una volta che si è provata e perduta  un  po’ di felicità «le speranze non bastano più a contentarci e l’infelicità dell’uomo è stabile» (Giacomo Leopardi).

Dovendosi confrontare con quanto rientra nell’area non controllabile dell’accadere, negli usi linguistici connessi alla felicità prevale l’augurio («sii felice»), la speranza («spero di essere felice», «spero che siate felici»), l’interrogativo («sei felice?») persino l’esclamativo («oh, come sono felici!»); inconcepibile invece proclamare dall’esterno la salda condizione felice  in cui si trova qualcun altro. Se lo si osa fare («è un matrimonio felice»), lo si fa guardando al passato, a quanto è già stato, non si ha l’ardire di spingere lo sguardo in avanti. Al più tali espressioni suggellano la stabilità solo quando possono essere dette in forma di congedo («il loro è stato un matrimonio felice»).

Queste componenti esistenziali  – o persino psicologiche – possono essere di aiuto  per comprendere, per antitesi, il genere letterario proprio della Scrittura chiamato «macarismo», che consiste nella proclamazione della beatitudine altrui. La faticosa parola tecnica «macarismo» è spia della difficoltà di riscontrare nella vita quotidiana l’esistenza di un tale procedimento. Chi mai, dall’esterno, può arrogarsi il diritto di affermare  in modo duraturo senza «se» e senza «ma»: «Tu sei felice»? Chi può dire a un altro: «la tua condizione è stabilmente felice»? Il paradosso delle beatitudini, ancor prima dell’individuazione dei soggetti (i poveri, gli affamati, i piangenti, gli odiati; Lc 6,20-22) sta nell’arditezza di affermare dall’esterno la felicità altrui. Nel linguaggio biblico la beatitudine  non è  un saluto o un augurio di felicità: è un detto che proclama la salvezza. L’affermazione è giustificata dalla condizione in cui quella persona o quel gruppo si trovano. Nell’ambito della ricerca biblica, forse senza coglierne appieno la paradossalità, il macarismo è definito una forma «estimativa-dichiarativa» che proclama la beatitudine altrui.

Si sa di essere felici non già perché si sta scrutando il proprio cuore, ma perché si ascolta una voce che dal di fuori dice che si è tali. Nulla è più lontano dal modo comune di sentire. Anche per questo il salto della fede  si dà solo rendendo certa la speranza, vale a dire quanto nella esperienza comune vi è di più esposto alle smentite. Le motivazioni date alle beatitudini hanno a che fare con la realizzazione delle promesse  a motivo della loro stessa dicibilità. Una parola che dal di fuori afferma che sei felice anche a tua insaputa ha senso solo se realizza quello che dice. In definitiva, è l’ascolto stesso di quella parola a renderti felice. La felicità continua a essere legata a un accadere. La fede afferma che la stabilità dell’accadere è nelle mani misericordiose di Dio non solo in riferimento a quanto è già avvenuto, ma anche in relazione a quanto sta avvenendo e avverrà. La beatitudine è la stabilità della speranza.         

Piero Stefani

13 – Le beatitudini (22.02.04)ultima modifica: 2004-02-21T13:10:00+01:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo