La sfida del dolore (16.11.02)

Il taccuino di Piero Stefani

 

Davanti alla camera di correzione – in pratica di tortura – di una prigione del Camerun fino a non molto tempo fa era appeso un cartello con scritto: «La sofferenza conduce alla saggezza». Parole, in quel contesto, irridenti e blasfeme. Per analogia esse fanno pensare al motto che campeggia sulla porta di Auschwitz: Arbeit macht frei («il lavoro rende liberi»). Varcato quel cancello si entrava però in un campo organizzato in base a un lavoro spietatamente forzato. In esso il lavorare non rendeva liberi: al più era una delle condizioni per sopravvivere, ma poteva anche rivelarsi un modo per esaurire le forze e condurre a una immancabile eliminazione. Lo stesso vale – in proporzioni meno estese –  per la sofferenza inferta ai reclusi camerunesi: se la si sopporta si può vivere ancora,  altrimenti essa  è l’anticamera della morte.

Il direttore della prigione neppure sapeva dell’esistenza di quel cartello. Informatone da una giovane volontaria italiana – Rosa Vettese – lo ha tolto, continuando  però ad affermare la validità del suo contenuto. Fermo restando che assunta in quella forma crudele la sofferenza conduce al massimo a un’avvilita sottomissione, ci si può chiedere se, in condizioni più umane, il nesso tra dolore e saggezza possa rivendicare a se stesso una qualche validità.

Nell’esistenza di tutti si esperimenta su di sé e si osserva su altri che  ci sono dolori che fanno maturare le persone; tuttavia non è infrequente essere costretti a tirare anche la conclusione opposta: esistono sofferenze che minano in modo brutale il fisico e rimpiccioliscono e rendono gretto l’animo. Il dolore è una sfida, non una scuola. Come in tutti i corpo a corpo se ne può uscire sconfitti o vincitori. Nulla è assicurato in partenza. Per sfidarlo non si può mai indicare un’unica, universale strategia. Di fronte al dolore la sopportazione, la rassegnazione, la resistenza, la lotta attiva, la ribellione impotente, l’offerta, il disprezzo, l’accettazione serena, l’imprecazione violenta, la speranza, la disperazione e altri stati d’animo ancora  hanno tutti voci in capitolo. Ognuno di essi, secondo i tempi e le circostanze, può  essere opportuno o improprio. Avere ridotto di molto l’arco di questo ventaglio  è stata una delle più gravi responsabilità di una certa spiritualità cristiana. Essa, indicando una via monocorde come se fosse l’unica consona alla fede, troppo spesso aggiunge un artificiale senso di colpa all’animo di chi non sa rassegnarsi allo scandalo del male. Ancora pochi giorni fa un giovane parroco, con ingiustificabile precipitazione, parlava,  riferendosi a genitori che poche ore prima avevano visto i propri bimbi schiacciati dal peso delle fragili strutture edilizie della  loro scuola, di  speranza e di volontà di ricominciare a vivere in modo fiducioso.

Nei vangeli la morte di Gesù è  raccontata in diversi modi. Matteo e Marco mettono sulle labbra del crocifisso il grido «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Mt 27, 46;  Mc 15,34; Sal 22,2 ). Luca parla di un sereno affidamento del proprio spirito al Padre (Lc  23,46; Sal 36,1 ). Giovanni presenta Gesù soggetto attivo del proprio morire facendolo congedare dal mondo con un’espressione  tipica di chi ha portato a termine la propria missione: «tutto è compiuto» (Gv 19, 30). Neppure guardando  all’esempio massimo costituito dalla morte del loro Signore i credenti possono avere un’unica risposta. La fede davvero degna di questo nome non si sovrappone all’umano, lo vive. Non vi è alcuna risposta precostituita all’atto di vivere nella fede. Anche per il credente gli interrogativi e forse le risposte nascono entro il crogiuolo dell’esistenza.

Se multiforme è la risposta al dolore e se è tutt’altro che scontato che esso rappresenti la porta dischiusa sulla saggezza, più salda e uniforme è la proposizione opposta prospettata dal biblico Qohelet: «chi  moltiplica il sapere  moltiplica il dolore» (Qo 1,18 ). Per  convincersene  non occorre leggere Schopenhauer: è sufficiente dischiudere le finestre sul mondo. È difficile però in tal caso non concludere che questo tipo di dolore faccia parte di quanto di più nobile e degno vi è nella natura umana.

La sfida del dolore (16.11.02)ultima modifica: 2002-12-28T06:20:00+01:00da piero-stefani
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