La crisi della giustizia (30.11.02)

Il taccuino

 

Vi è un’antica testimonianza legata al mondo dei sofisti stando alla quale gli dèi non si  occuperebbero  delle cose umane. Se non fosse così essi non avrebbero trascurato il più alto dei beni che esiste tra gli uomini, la giustizia. Questa parola ha molti significati. Tuttavia è fuori dubbio che la prima idea che viene in mente alla lettura dell’espressione posta a titolo di questo “taccuino” è di riferirsi alla componente penale. L’attività umana in cui il colpevole viene riconosciuto e condannato è al centro della riflessione e della pratica di tutte le società umane. Non appena, però, insorge un senso critico – e i sofisti  costituiscono  una delle più antiche manifestazioni occidentali in questa direzione – immediatamente si coglie la precarietà di questo fenomeno.

L’errore giudiziario non è soltanto un incidente di percorso, una deprecabile variante di un meccanismo in genere ben funzionante: è la prova della incapacità umana di cogliere la verità. In tale luce è eloquente il fatto che Socrate, simbolo per eccellenza della filosofia occidentale, sia stato presentato nel contempo tanto come sostenitore della visione secondo cui l’unica sapienza data all’uomo sta nel riconoscimento del proprio non sapere, quanto come vittima di un errore giudiziario. Dal punto di vista teorico lo scetticismo e il dubbio possono essere risposte almeno in parte legittime. In quest’ambito il giudizio può restare sospeso. Non così sul piano pratico. L’espressione proverbiale secondo cui il dubbio va a favore del reo attesta che bisogna decidere anche quando non si sarebbe nelle condizioni di poterlo fare. La convenzione stando alla quale nell’incertezza si opta  per l’assoluzione indica che l’atto con cui una persona ne condanna un’altra non può mai essere compiuto in perfetta coscienza: quando lo si fa lo si compie sempre sotto la “copertura” di altri.  Lo si deve  attuare in nome di Dio o del “popolo italiano” (la fonte dell’autorità in un sistema democratico),  non in nome della propria coscienza. In quest’ultimo caso vale infatti sempre il detto evangelico che solo chi è senza peccato può scagliare per primo la pietra (Gv 8,7), il che equivale a dire che nessuno può condannarne un altro per autorità propria.

I procedimenti giudiziari sono legali,  in essi si agisce in base a norme prestabilite volte a garantire una giusta sentenza. Ma, proprio come avvenne  nel caso di Socrate, non violare le procedure non significa garantire la giustizia. Nella Bibbia vi è un episodio, la vigna di Nabot (1 Re 21) che, per alcuni versi, sembra potersi collegare a un recente clamoroso episodio di cronaca giudiziaria italiana. Il re di Israele Acab  voleva entrare legalmente in possesso della vigna  di quel suo suddito. Nabot però a motivo del proprio attaccamento ai valori familiari  si rifiuta di addivenire a una compravendita sul piano strettamente finanziario per lui vantaggiosissima. Il re se ne duole amaramente. Sua moglie Gezabele, a sua insaputa, trama al fine di conseguire la meta agognata. Corrompe due falsi  testimoni (due, secondo quanto stabilito dalla legge Dt  19,15) i quali giurano di aver udito Nabot bestemmiare Dio (reato che prevedeva la pena capitale) provocandone la lapidazione. Il re entra così in possesso della vigna.  Dio però ispira il profeta  Elia  che denuncia ad Acab il misfatto. Il re lo ammette e si pente ottenendo una dilazione della punizione.

Possiamo ancora ben immaginare che qualcuno per ingraziarsi un potente possa compiere a sua insaputa un delitto. Possiamo ancora ipotizzare responsabilità morali anche nel caso in cui non si tratti di imputazioni credibili da un punto di vista rigorosamente giudiziario. Non esistono però più voci profetiche che, in nome di Dio, smascherano i giochi. L’autorità in ballo è quella, troppo spesso umiliata, del popolo italiano. La magistratura che ha creduto di poter svolgere un ruolo decisivo nel cambiamento del “sistema Italia”, si avvita su se stessa. Perdendo giorno dopo giorno  credibilità  si trasforma quindi da luogo di resistenza a obiettivo pretesto per attuare  scelte politiche di parte e forse pericolose. Non possiamo far affidamento su voci profetiche. La via  più efficace per “resistere”  non pare, però, neppure quella di circondare con girotondi i tribunali. Occorre piuttosto riflettere a fondo  su quel “in nome del popolo italiano” che nella modernità ha sostituito l’autorità di Dio.  La crisi della magistratura è oggi una specchio in cui si riflette la più ampia crisi della democrazia.  

La crisi della giustizia (30.11.02)ultima modifica: 2002-12-28T06:10:00+01:00da piero-stefani
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