Il bene della pace (21.09.02)

il taccuino 

 

Soffiano venti  di guerra, anche se, forse, un po’ meno prossimi di quanto si era paventato fino a qualche giorno fa. Come sempre in questi casi l’opzione di fondo per la pace deve misurarsi con circostanze concrete. Condanne severe e intransigenti per certe scelte possono dipendere o da un rifiuto  generale di ogni tipo di violenza bellica o dalla valutazione di situazioni specifiche. La plurisecolare e tuttora non estinta visione cattolica della «guerra giusta» è largamente  teorica. Perché è  assai difficile che, nell’ordine dei fatti,  ci possano essere condizioni in cui la guerra sia semplicemente difensiva, non coinvolga vittime innocenti e non intervenga una sproporzione tra mezzi impiegati e risultati conseguibili. Per lo più si tratta di condizioni possibili solo su un piano verbale e astratto, tale – come ha osservato con acume lo storico Giovanni Miccoli – da salvaguardare il sistema dottrinale e morale di chi li formula e non da condizionare lo svolgersi effettivo dei fenomeni in corso. C’è però anche un rovescio della medaglia. Pur nella sua astrattezza la teoria della «guerra giusta» fa dipendere l’approvazione dell’intervento bellico da principi che in quanto molto ardui da applicare si possono mutare in condanna rigorosa e circostanziata di una specifica guerra (s e non della guerra in quanto tale).

 

Questa opzione mediana stride se confrontata in modo diretto con il buon annuncio evangelico, il quale non si muove nell’ambito né del compromesso, né della mediazione. Per questo le voci profetiche devono essere radicali, mentre non devono esserlo quelle politiche. Ascoltare a un tempo la une e le altre è proprio della paradossale condizione del credente che vive nel cuore della città umana. Né c’è da stupirsi che solo per fugaci momenti si riesca a  reggere tale tensione. In ogni caso è richiesto di non chiudere gli orecchi alle voci profetiche, anche quando esse non possono, né devono diventare direttamente politica.

 

Una di queste  voci risuonata  dal vivo fino a non molti anni fa e la cui eco è tutt’altro che estinta fu quella di don Giuseppe Dossetti. In una sua conversazione tenuta pochi mesi prima della morte, ma  pubblicata  per la prima volta solo l’anno scorso («La pace e la giustizia» in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace,  Annuario della pace. Italia / maggio 2000-giugno 2001,Asterios,Trieste 2001, pp.324-336) è riportata una frase del grande teologo bizantino Cabasilas a commento  del passo della lettera agli Efesini in cui Cristo è definito «la nostra pace» (Ef 2,14 ). In essa si legge: «poiché da lui [Cristo]tutto è stato pensato in funzione della pace, quale bene può essere ritenuto superiore alla pace da coloro che fanno oggetto della meditazione e dell’impegno dell’anima i misteri di Cristo? […] la pace è così preziosa che Dio stesso è venuto sulla terra a comprarla per gli uomini: lui, ricco e Signore di tutte le cose, non trovò nessuna cosa degna di quel bene, ma la pagò versando il proprio sangue». A questa frase Dossetti fa seguire le seguenti considerazioni: «E cioè, proprio dai supremi misteri dell’opera messianica si deve ricavare anche la conseguenza di una ricerca progressiva e continua, universale e stabile, della pace concreta tra gli uomini. Non si può spiritualizzare quella che è stata l’opera messianica fino al punto di ritenerla un’operazione proficua al singolo, ma che non si dilata in un’operazione di carattere comunitario e sociale, universale».

 

«Ci ritroveremo a settembre» scriveva a fine giugno Luciano Chiappini nel suo ultimo «Taccuino». In qualche modo  è davvero così; non a motivo di chi ha da lui ereditato questa rubrica, ma a causa delle parole di Don Dossetti, una delle quattro figure sacerdotali (le altre tre sono Mons. Mori, Don Dioli e Don Milani) evocate nell’omelia funebre da Mons. Samaritani come le più intimamente presenti nell’animo di Luciano.

Una frase di origine  americana  stupidamente ripetuta in  molte circostanze afferma: «lo spettacolo deve continuare»; e nulla è meno motivato di quel deve che, in moltissimi casi si rivela solo superficiale rassicurazione psicologica. Vista in tale ottica questa rubrica non deve continuare. Se prosegue  con lo stesso titolo ciò avviene perché chi la scrive ha ereditato un compito e non sostituito una persona. A dover continuare non è già lo «spettacolo», bensì la memoria e la gratitudine.

Il bene della pace (21.09.02)ultima modifica: 2002-12-28T07:00:00+01:00da piero-stefani
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