intervista di Elena Ribet apparso su Nev.it 23 novembre 2020 (Nev, notizie evangeliche, Agenzia di stampa delle Federazione delle Chiese evangeliche in Italia)
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1) A proposito del libro “Credenti in bilico”, la co-curatrice Sabina Baral parla di “uno sguardo poetizzante nel dire Dio oggi”, sostenendo che l’estetica possa essere di aiuto alla teologia (https://www.nev.it/nev/2020/09/10/sabina-baral-lo-sguardo-poetizzante-nel-dire-dio-oggi/). Cosa ne pensa?
Comincio citando un passo di Boccaccio proveniente dal Trattatello in laude di Dante «Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa sola si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più che la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio». Va da sé che la citazione andrebbe compresa nel suo contesto. In particolare per «teologia» qui si indica, in effetti, la Scrittura e per «poesia» il ricorso a un linguaggio simbolico. Con tutto ciò resta saldo che una teologia degna di questo nome è tale solo se fa proprio un linguaggio capace di alludere all’ «Altro». La poesia e l’arte sono grandi quando i loro linguaggi sono da un lato rigorosi e precisi sorretti dallo studio e dalla tecnica e dall’altro costantemente in grado di rimandare all’ «altro da sé», in questo senso sono sempre simbolici. Su questa riva si situa l’affinità più profonda con il pensare teologico, oserei dire anche con il vivere teologico. Quando non cede a qualche forma di narcisismo, non vi è nulla di meno possessivo del linguaggio poetico e artistico. Esso è contraddistinto da un’apertura all’ «altro» che va mantenuta fino all’ultimo. Al riguardo si devono a Michelangelo due versi mirabili: «Non ha l’abito intero prima alcun, / c’a l’estremo dell’arte e della vita». Analogamente, quando non cade in qualche forma di implicita idolatria, non vi è nulla di meno possessivo del linguaggio teologico.
2) Secondo lei si può parlare di fragilità della fede?
Un passo del Vangelo di Marco custodisce da quasi duemila anni la risposta più profonda a questo interrogativo. Mi riferisco all’episodio in cui un padre supplica Gesù di guarire il proprio figlio preda di uno spirito muto. Il genitore si rivolge ai discepoli ma essi falliscono, allora interpella direttamente il Maestro che risponde duramente, tacciando di incredulità la propria generazione. Nel dialogo successivo il padre, rivolgendosi al Maestro, dice: «“Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede”. Il padre del fanciullo disse ad alta voce: “Credo, aiuta la mia incredulità (apistia)”». Dopo questo scambio di battute avviene la guarigione (Mc 9,14-29). Una prima annotazione: se i discepoli avessero guarito il fanciullo non ci sarebbe mai stato alcun dialogo tra Gesù e il padre del ragazzo. In un certo senso ciò vale per la testimonianza di tutti i credenti: quanto conta è far giungere gli «altri» a Gesù non a se stessi e alle proprie Chiese. Questo itinerario a volte si compie pure a motivo della scarsità della nostra fede.
Vi è però qualcosa ancora di più qualificante, la «non fede» (apistia) è esperienza costitutiva del credente. Affermare che tutto è possibile a chi crede fa sì che la non fede divenga componente interna all’atto di credere. L’aver alzato al massimo la forza e la portata della fede fa sì che l’incredulità sia presenza ineliminabile dell’esperienza del credente. Le ferite non sanate del mondo sono prova inconfutabile della nostra mancanza di fede. La non fede o la poca fede sono compagne fedeli del credente.
«Nulla è impossibile a chi crede» sarebbe espressione idolatrica se non fosse sorretta dalla presenza dell’apistia intesa come momento intrinseco della vita di fede. Per far sì che l’atto di credere sia davvero tale non vi può essere alcuna simmetria tra «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1, 37) e «tutto è possibile a chi crede». Nella fede è sempre contenuta una dislocazione. Si è sicuri della potenza del credere solo nel momento in cui si afferma la propria impotenza e ci si affida a Dio.
Va comunque osservato che le definizioni negative del non credente (apistos) o del poco credente (oligopistos) han ragion d’essere solo all’interno dell’orizzonte della fede. Sono un giudizio sul credente non sugli «altri».
3) E di fragilità della religione?
È difficile per la religione essere fragile. In una conversazione privata, un mio interlocutore, in relazione all’interrogativo evangelico se il Figlio dell’uomo alla sua venuta troverà fede sulla terra (Lc 18,8 ), precisava che esso riguardava appunto la fede e non già la religione; non ci sono dubbi in relazione alla sussistenza di quest’ultima.
Vista come insieme sia di prassi sociali sia di prospettive simbolico-spirituali la religione è inestinguibile in quanto dotata della capacità di rispondere a profondi bisogni antropologici. Essa, come si è osservato infinite volte, quando non si presenta direttamente come una serie di pratiche rituali dirette al divino riemerge in forme, più o meno marcatamente, secolarizzate. La produzione simbolica nella nostra società è molto elevata, alimentata in modo evidente dall’attuale egemonia dell’iconico. Gli esempi sono ovunque, basta guardarsi attorno.
Il processo è particolarmente notevole là dove si osserva l’erosione del terreno sul quale le religioni, intese in senso tradizionale, sembravano opporre maggiore resistenza. Penso in primis ai riti funebri. Essi non sono scomparsi nella loro articolazione consueta, tuttavia sono sempre più accompagnati o sostituiti da simbologie alternative. La croce è ancora riconoscibile, essa però tende a essere rimpiazzata da altri simboli; per accorgersene basta guardare ai modi in cui sono contrassegnati, lungo le strade, i luoghi degli incidenti mortali.