Il pensiero della settimana, n. 435
C’è un’obiezione scettica (nel senso proprio del termine) che suona così: sei cristiano perché sei nato qua; se fossi venuto al mondo in Arabia Saudita saresti certamente musulmano, se fossi nato in India probabilmente induista. Obiezione, nel suo ambito, imbattibile. Le appartenenze religiose infatti dipendono dalla casualità del luogo di nascita. Il discutere sui modelli della cosiddetta «trasmissione della fede» è operazione per definizione secondaria. Per la religione varrebbe, infatti, quanto vale per la propria lingua madre: anche se si è un poliglotta quella nativa resta indelebile. Con due differenze: in religione è precluso persino essere perfettamente bilingue, mentre è dato emanciparsi in modo definitivo dall’imprinting della religione in cui si è nati.
Una riposta a questa obiezione la si può trovare solo dentro la fede. Là è possibile affermare: è stato proprio Dio a volere che nascessi qui, è stato lui ad aprirmi la porta del credere. Fuori della fede, va da sé, questo tipo di risposta non vale nulla. Ma anche dentro la fede non è facile rispondere alla domanda del perché il Dio che si presenta come «nostro Dio» («O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco» Sal 63,1) ha voluto che tanti non lo riconoscano come tale: perché il Padre di tutti ha voluto che solo alcuni si rivolgessero a lui chiamandolo con quel nome? È una domanda che da sola basta a smontare le superficiali pretese di chi esalta la superiorità del cristianesimo rispetto alle altre religioni a motivo del fatto che esso riconosce Dio come Padre. Nella vita sociale capita che padri irresponsabili non riconoscano i propri figli; nella vita spirituale, stando ai difensori della cristianità, succederebbe proprio il contrario. Ma la responsabilità più grave è sulle spalle di chi viene prima (il padre) o su chi viene dopo (i figli)?
La porta della fede, al pari di quella dell’annuncio, non ha chiavi. Né vi è azione umana in grado di dischiuderla; la si può solo indicare. Per rendersene conto basta guardare a Paolo. Quando, nelle sue lettere, ricorre alla figura della porta, egli esclude ogni riferimento a un’azione umana capace di aprirla: «Mi fermerò tuttavia a Éfeso fino a Pentecoste, perché mi si è aperta una porta grande e propizia e gli avversari sono molti» (1Cor 16,9); «Giunto a Troade per annunciare il vangelo di Cristo, sebbene nel Signore mi fossero aperte le porte, non ebbi pace nel mio spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello» (2Cor 2,12). Qui si tratta della definitiva porta del regno dei cieli; se così si potesse dire, si è piuttosto di fronte a una porta di passaggio lungo gli instancabili itinerari percorsi senza posa da Paolo; ora non c’è riposo, anzi ci sono avversari e inquietudini. Questi passi confermano, però, che nessuno ha in tasca le chiavi per aprire la porta dell’evangelizzazione.
Ciò vale anche per il modo in cui Luca racconta di come Paolo e Barnaba annunciarono alla Chiesa di Antiochia l’azione missionaria da loro compiuta in altre località. A quei credenti essi comunicarono: «quanto aveva fatto Dio con loro e che aveva aperto alle genti la porta della fede» (At 14,27, reso alla lettera). Come si sa, proprio questo passo è stato scelto da Benedetto XVI come emblema dell’attuale anno della fede (cfr. il motu proprio Porta fidei, pensiero n. 400). Nel passo degli Atti il soggetto, espresso apertis verbis, è Dio. Nessun essere umano ha in mano le chiavi della porta della fede.
Nel caso in cui si venga al mondo in terre non cristiane la fede ha poco a che fare non solo con la nascita ma anche con l’imparare un linguaggio. Le cose stanno sempre più così anche dalle nostre parti. Del resto se la fede fosse riconducibile all’educazione sarebbe qualcosa di umano, di troppo umano; sarebbe solo una tradizione culturale, per quanto nobile. La fine della cristianità è un’occasione epocale per riscoprire in Occidente il proprium della fede per la quale valgono sempre le parole rivolte da Gesù a Nicodemo «Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7). Solo Dio ha in mano la chiave capace di aprire l’utero fecondo dello Spirito. Il fatto, poi, che non si faccia riconoscere da tutti coloro che sono suoi figli è un mistero di libertà che solo lo Spirito conosce.
Piero Stefani
“Lo si può solo inidicare”
Grazie del pensiero. Se mi consenste, professore, tenendo fermo che “solo Dio ha in mano le chiavi”, vorrei aggiungere che il verbo “indicare” rientra tra i numerosi significati che si svelano nei “Percorsi del riconoscimento”. Vale per il Padre: “Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo”. Ma anche per i figli: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio”. I modi poi dell’indicare non sono solo all’indicativo; ma anche esortativo-parenetico, confermativo-rafforzativo. Questi ultimi schiudono le variegate forme del discorso “performativo”. Così è nei due testi citati. E così è o dovrebbe essere ancora oggi.