436__Una teologia attraverso la pelle (09.06.2013)

Pensiero della settimana, n. 43

 

     Il posto non gli era ignoto. Anzi ad esso aveva dedicato un breve pensiero stampato in un suo libretto. Tuttavia quella volta fu diverso. Fu un’esperienza di teologia epidermica. Si trattò di una pelle porosa in grado di lasciar entrare all’interno influssi provenienti dal di fuori.

     Salire all’Aventino può avere molti significati, alcuni dei quali simbolici. Non sempre però si è invitati a riandare alla celebre protesta dell’antica Roma repubblicana o alla più recente opposizione al fascismo. Quel giorno non fu così: lui  non si ritirò sull’Aventino della propria coscienza, al contrario fu un particolare dell’Aventino a smuovergli la coscienza.

     Il luogo è notoriamente uno dei più belli di  Roma. La vista sulla città, con i pini del Gianicolo che declinano in direzione del cupolone e  l’intrico di vie, chiese, palazzi più a est chiuso dalla cornice lontana dei monti e da quella più prossima di Villa Borghese, lascia tracce negli occhi e nell’animo. Avvenne così anche al meriggio di quel giorno di un giugno dall’aria fresca e da un sole caldo in perenne lotta con un susseguirsi di nubi chiare e scure intervallate da larghi squarci azzurri. Sul colle  non c’è solo la vista di quanto è lontano e non ci sono neppure soltanto scorci suggestivi come quello del grande arco abbracciato da enormi tigli lì lì per far fiorire tutto attorno il loro  espansivo profumo. All’Aventino ci sono anche uomini di Chiesa. Da Sant’Anselmo uscivano a gruppi giovani monaci in abito scuro; alcuni di loro avevano anche la pelle di quello stesso colore. Tra essi si intrufolava qualche abito bianco e nero. Era l’ora della passeggiatina del dopo pranzo. Bianca era anche la veste del frate  anzianotto  che usciva dal loggiato di S. Sabina, complesso da decenni affidato ai domenicani.

     Data l’ora c’era poca speranza che la chiesa fosse aperta. Entrò ugualmente sotto il portico. Da un braccio laterale si udiva il rumore piuttosto tenue di operai al lavoro; camminando lungo l’asse centrale si accorse che la porta della chiesa era invece parzialmente aperta. Varcò la soglia; non c’era nessuno. Le sedie erano accatastate nella navata di destra, perciò il centro era vuoto fino all’altare e all’abside arricchita dalle tre finestre e imbruttita dal trionfalistico affresco del catino. Passeggiò osservando le antiche colonne, vide la cappella del Santissimo con la Madonna di Pompei sopra il tabernacolo. Si soffermò su due monumenti funebri, sobri per essere seicenteschi. Girava e rigirava per prepararsi all’iconografia che più di ogni altra lo conduceva in quel luogo; si trattava del mosaico posto sulla parete sopra la porta d’ingresso. Anche in essa, questa volta in alto, si aprivano delle finestre da cui proveniva un forte controluce. Tuttavia le due matrone musive poste ai lati erano ben visibili. Entrambe erano sontuosamente vestite, tutte e due avevano un libro in mano; solo aguzzando la vista si poteva scorgere qualche lieve differenza tra esse. Anche la scritta era decifrabile; la prima parte era identica ma la seconda marcava una differenza. Sotto la matrona di destra per chi entra c’è la scritta “ecclesia ex circumcisione”, sotto la dirimpettaia di sinistra si legge invece “ecclesia ex gentibus”.

L’iconografia a Roma ha qualche altra esemplificazione, tuttavia essa appare remota e incomprensibile per la maggior parte degli osservatori. Per la matrona di destra pesa poi la storia, spesso drammatica, degli ebrei convertiti a forza. Si comprende perciò la reazione contemporanea di sostenere che gli ebrei non hanno alcun bisogno di entrare nella Chiesa.

     Il nostro visitatore articolò pensieri anche più complessi. Nel XVI e nel XVII secolo in Spagna si fu ossessionati dalla limpieza de sangre in base alla quale si discriminavano pesantemente i “cristiani nuovi” contaminati dalla loro origine ebraica (o moresca). Tale discriminante etnica (per certuni addirittura protorazzista) ci disgusta. La matrona che viene dalla circoncisione, sia pure a parti capovolte, sembra rimanere impastoiata anch’essa in un principio etnico; di contro, nelle comunità dei credenti in Gesù Cristo, non dovrebbe esserci né Giudeo né Greco. E perché rendere della stessa grandezza la sparuta Chiesa giudeocristiana e l’universale Chiesa delle genti? E non è un paradosso sconcertante presentare una figura femminile e collegarla a un rito così unilateralmente maschile come quello della circoncisone?

     Si rese conto di quanto sia complesso far risuonare nell’oggi la verità profonda di quell’iconografia. Tutto resta appeso a quella minima particella “ex”, pure oggi di uso frequente ma in tutt’altro senso. Qualche sprovveduto potrebbe persino pensare che si tratti di ex ebrei ed ex pagani ora divenuti tutti cristiani. In effetti quell’ “ex” sta a significare “chiamati da”. La Chiesa è una realtà diversa da quella costituita dagli ebrei e dai gentili, per questo non dovrebbe sostituire popoli e culture. Eppure, se non ci fossero stati il popolo d’Israele, le promesse, le sue Scritture, se non ci fossero stati ebrei a testimoniare Gesù Cristo morto e risorto, se non l’avessero annunciato per le vie del mondo l’ecclesia ex gentibus non sarebbe mai esistita. Erano pensieri per lui familiari da tempo, ma  era ben consapevole di quanto fossero difficili da comunicare e da comprendere. Loro malgrado erano diventati elitari.

Era incerto se continuare a guardare verso l’uscita o rivolgersi di nuovo verso l’abside. Poi vide una panchetta sulla sinistra appoggiata alla porta d’ingresso, vicino a un’icona pseudo-antica di  S. Domenico posta in una rientranza laterale. Accanto ad essa, su un supporto di plastica tipico dei musei, era scritta una preghiera rivolta al fondatore dell’Ordine dei predicatori. La scorse. Il lessico era contemporaneo, chiedeva la protezione per la propria famiglia, per i figli successo negli studi e buona riuscita nella ricerca del lavoro, domandava conforto per gli emarginati. Della vita eterna non c’era alcun sospetto.

     Si sedette sulla panca, appoggiò la testa alla parete, distese le gambe, incrociò le dita e stette. Avvertiva tutta la centralità di essere un goy venuto alla fede. Quella era la sua Chiesa, proprio perché accanto a essa ce n’era un’altra. Il muro a poco a poco sembrava trasmettere qualcosa. Dalle tessere di quel venerabile mosaico pareva scendere un flusso di benedizione. Non pregava, forse non pensava neppure; si sentiva avvolto da una calma profonda. Semplicemente stava.

Era trascorso parecchio tempo ma nella chiesa non era entrato nessuno. All’improvviso, con la titubanza tipica di chi si chiede se è un intruso, entrano tre giovani, due ragazzi e una ragazza, dall’aspetto apparivano americani.  Girano un po’ con aria spaesata, consultano rapidamente una guida, scattano qualche immancabile fotografia con il telefonino e poi se ne vanno. Un cronometro non avrebbe fatto molti giri.

     Passò un’altra decina di minuti e anche lui uscì. Il cielo si era oscurato ma non appariva minaccioso. Si sbagliava. Bastò poco perché tutto mutasse. Si trovava di fronte al celebre pertugio di piazza S. Anselmo là dove è dato di vedere con un occhio solo, tra bordi di alte siepi, il viottolo che punta dritto alla cupola di S. Pietro. Cominciarono a cadere le prime gocce e si diffuse nell’aria l’inconfondibile odore della pioggia estiva. Un attimo dopo sopravvennero violenti scrosci temporaleschi. Il piazzale era bagnato dalla pioggia che rimbalzava in larghe corone e percorso da rivoli che scorrevano verso le parti più basse; qualche isolato chicco voleva dimostrare che la grandine non era una possibilità remota, il preannuncio però non ebbe seguito. Riparato tra l’ombrello e la rientranza del portone, stette lì vari minuti con accanto una vivace, giovane coppia brasiliana e una imperturbabile cinesina. Passata la tempesta, pose di nuovo l’occhio nel minuscolo oblò: il vialetto era cosparso di pozzanghere risplendenti, la cupola michelangiolesca era baciata da qualche raggio di sole. Magnifico. Pensò alla piazza sottostante che ogni mercoledì si riempie all’inverosimile per vedere e ascoltare papa Francesco. Il vescovo di Roma ha un carisma straordinario e già sfruttato da molti (in ogni angolo di Roma le bancarelle sono piene di suoi ritratti e ritrattini). Quella cupola lontana così mirabilmente incorniciata ha un suo ineguagliato fascino. Ma è esperienza visiva che denota una distanza; la pelle avverte più prossimo il mistero racchiuso in un muro che trasmette una benedizione proveniente da un mosaico che non si vede.

Piero Stefani

 

P.S.  «Roma. Basilica di Santa Sabina. Sulla parte sopra la porta d’ingresso le due donne, uguali – in Cristo – Ecclesia ex circumcisione et Ecclesia ex gentibus; nel catino absidale un affresco oleografico con al centro Gesù da cui scaturisce un corso d’acqua che giunge alle pecore custodite da tre papi. La storia del cristianesimo contenuta in una navata, una vicenda di tradimento: dalla Chiesa non identitaria costituita dai chiamati da Israele e dalle genti, al moderno papocentrismo», Piero Stefani, Alla ricerca di luoghi trovati, il Margine, Trento 2011, p. 137.  Per la verità una sola delle tre figure ecclesiastiche ha il triregno, le altre due hanno la mitria.

436__Una teologia attraverso la pelle (09.06.2013)ultima modifica: 2013-06-08T08:36:00+02:00da piero-stefani
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