434__La porta e la chiave (26.05.2013)

Il pensiero della settimana, n. 434

 

     Se si consulta un dizionario dei simboli a proposito del termine «porta» si leggeranno, più o meno, queste parole: essa rappresenta il luogo di passaggio fra due stati, fra due mondi, fra il conosciuto e l’ignoto, tra la luce e le tenebre. La porta è un varco aperto sul mistero. Essa ha un valore dinamico e psicologico, in quanto non solo indica un passaggio ma si trasforma in invito a superarlo. Per questo può facilmente alludere anche a un viaggio verso l’aldilà. La porta è anche un simbolo ambivalente; è connessa a un entrare ma anche a un uscire, è aperta o è chiusa.

     Quando la porta è intesa in modo dinamico si pensa all’atto di aprire o di chiudere. Allora pare spontaneo immaginare che essa si incontri con un altro simbolo, quello della chiave. All’interno degli scritti neotestamentari si assiste, però, a una specie di dissociazione tra l’immagine della porta e quella della chiave; nella massima parte dei casi quando c’è l’una non vi è, almeno in modo esplicito, l’altra. Avviene così, per esempio, nell’Apocalisse. Nella prima visione, colui che è «simile a un Figlio dell’uomo» (Ap 1,13) si presenta dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap. 1,18; cf. Ap 9,1; 20,1). La porta resta sottintesa. Nella successiva sessione delle sette lettere indirizzata alle sette Chiese, nel caso della missiva inviata all’angelo della Chiesa di Filadelfia, si legge: «Così parla il Santo, il Veritiero, colui che ha la chiave di Davide; quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3,7). Il sottotesto biblico qui coinvolto (Is 22,22) chiarisce che la chiave è simbolo dell’autorità dell’amministratore che regola l’accesso al re.

     La chiave, lo si sa, è al centro anche di uno dei passi più celebri e più contesi dell’intera Bibbia cristiana, quello del «primato di Pietro»: «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli» (Mt 16,19; cf. Lc 11,52). Per quanto la radice ebraica ptch, «aprire», da cui deriva anche il termine ebraico per chiave (maftteach), possa indicare anche l’atto di sciogliere, val la pena di sottolineare che, in riferimento a Pietro, non si opta per un aprire e un chiudere. Almeno ai nostri orecchi, si evocano più dei nodi che delle porte. In ogni caso rimane fondamentale porre in rilievo il fatto che la potestas di legare e sciogliere è riferita alla terra, mentre, per quanto concerne il cielo, l’azione è espressa attraverso un «passivo divino» in cui il complemento d’agente sottointeso è riferibile a Dio e non già a Pietro. In ogni caso, il rilievo più importante sta nel ribadire che in tutto il passo non c’è alcun nesso tra chiave e porta. Infatti quando compare quest’ultimo termine (pylē) esso è usato per scongiurare la minaccia di vedersi inghiottiti nelle profondità dell’abisso «e le porte (pylai) dell’Ade non prevarranno» (Mt 16,18; secondo una traduzione letterale). La porta, lungi dall’essere figura di salvezza, evoca esattamente l’opposto; essa diviene un modo per richiamare l’antica bocca dello Sheol spalancatasi per inghiottire gli empi (Nm 16,33).

     Cosa dedurre da questa divaricazione tra chiavi e porta? La conclusione più stringente è che la porta la si trova aperta o chiusa, nessuno, però, è stato investito del potere di aprirla o di chiuderla. Questa decisiva differenziazione non è stata valorizzata dal linguaggio ecclesiale, il quale, anzi, fin da epoche antiche, rese equivalente il legare e lo sciogliere a un chiudere e a un aprire. Bonifacio I nel 422, scrivendo a Rufo e ad altri vescovi della Macedonia per ribadire il primato della sede romana, affermò, per esempio, che, secondo le parole del «nostro Cristo», chiunque insorga a oltraggiare il successore di Pietro non potrà abitare nel regno dei cieli: « “A te” dice “darò le chiavi del regno dei cieli” e in esso nessuno entrerà senza il favore del portinaio». Eppure noi avvertiamo ben più vera, specie in relazione al «regno dei cieli», la separazione biblica tra «porta» e «chiave». L’aprire e chiudere la porta è atto di Dio e non del portinaio. Pietro con il suo mazzo di chiavi posto sulla soglia del Paradiso è meglio che resti là dove compare con maggior frequenza, vale a dire nelle storielle e nelle barzellette.

Piero Stefani

 

434__La porta e la chiave (26.05.2013)ultima modifica: 2013-05-25T09:16:11+02:00da piero-stefani
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2 pensieri su “434__La porta e la chiave (26.05.2013)

  1. Grazie per la puntata professore Piero. La mia ammarezza sta nel fatto che “le stotielle e le barzellette” nel popolo di Dio, e purttroppo nel pensiero ecclesiastico sono diventate “verita di fede”. personalmente, riflettendo alla chiave e la porta, mi ha sembrato più giusto di scrivere in passato sul imagine della porta che e flessibbile,e cosi nella mia riflessione ho preso distanza dalle chiavi e le porte mettendo nel centro della mia vita Cristo come porta flessibbile, che ci lascia entrare e uscire… con la sua riufflessione mi metto in discusione, si veramente abbiamo bisogno de uscire oppure solo di entrare.

    Grazie per il pensiero !

  2. Le chiavi e la porta(e) nell’Apocalisse non mi pare che abbiano una relazione solida e feconda, anche se i due termini si richiamano, e comunque la figura della porta(e) ha un rilievo del tutto particolare che non troviamo negli altri scritti del nuovo Testamento. A parte l’importante versetto 20 del cap 3 riguardante il Cristo alla porta, risultano determinanti quello iniziale del cap 4 e al versetto 25 del cap 21. Questi due versetti costituiscono la cornice della seconda parte del libro (così Biguzzi e Doglio). Ma in entrambi i casi la porta si riferisce il primo all’esperienza del veggente di Patmos e il secondo all’accesso possibile a tutti. L’esperienza del veggente è paradigmatica: egli è invitato a salire, a vedere, a scrivere e a custodire, che costituiscono la prima e la settima beatitudine dell’Apocalisse, tipica inclusione che concentra in questo caso l’ideale cristiano. Mi pare che oltre a ciò si possa aggiungere un altro aspetto riguardante la “sinestesia dei sensi”, cioè l’accesso possibile e fecondo all’intreccio tra parole e figure.

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