424_Francesco, vescovo di Roma (17.03.2013)

Il Pensiero della settimana n. 424 

 

      Le esperienze e i fatti che avvengono per la prima volta hanno, nella storia individuale o in quella collettiva, un sapore particolare. Il fenomeno si intensifica se le “prime volte” si coagulano attorno a un unico avvenimento. Rispetto all’attuale vescovo di Roma esse sono molteplici: il primo gesuita, il primo sudamericano, il primo a scegliere il nome di Francesco, il primo a chiedere di essere benedetto dal suo popolo (prassi non rara in America Latina ma del tutto inedita a Roma). Anche il linguaggio comportamentale è stato innovativo. Francesco si è presentato nel semplice abito bianco, senza la mozzetta, la croce pettorale era semplice, la stola è stata indossata solo nel momento liturgico della benedizione. A tutto ciò possiamo aggiungere il laico «buona sera» come iniziale parola di saluto. Per passare a ore successive, si potrebbe richiamare l’appello (già formulato in occasione della nomina cardinalizia) a non venire a Roma dalla lontana Argentina per la messa di inaugurazione e a devolvere ai poveri la somma del viaggio.

     Sbagliano coloro che intendono questo stile solo sotto l’insegna di una semplicità forse  persino ingenua. Le scelte compiute da Bergoglio si inquadrano in una visione teologica ed ecclesiologica precisa, volta a riconsegnare la figura del papa alla sua effettiva funzione di vescovo di Roma. È per tale carica che a lui spetta il primato petrino di presiedere le chiese sorelle nella carità. La consapevolezza in tal senso è stata tanto alta da riconsegnare – in modo canonicamente ineccepibile – anche il suo predecessore al ruolo di vescovo emerito. Le parole e i gesti rivolti al popolo di Roma da Francesco hanno trasformato, per qualche minuto, San Pietro in San Giovanni in Laterano (sede episcopale di Roma). In questa luce la serie delle “prime volte” ha ricondotto alla riscoperta di una forma tanto antica quanto, in linea di principio, perenne: il papa non è altro che il vescovo di Roma.

     Nel linguaggio sociologico contemporaneo si è coniato l’aggettivo “glocale” per indicare i particolarismi che spuntano ovunque, con coerente vigore, nell’epoca della globalizzazione. Nel riconsegnare il papa al suo ruolo di vescovo di Roma non c’è però nessun tipo di localismo fatto proprio da chi viene «quasi dalla fine del mondo». Vi è solo la consapevolezza del senso proprio della successione contenuta nella formula canonica che parla di benedizione «urbi et orbi»: è la città a essere la porta aperta sul mondo. La chiesa di Dio è universale perché costituita da una serie di chiese locali di cui quella di Roma è la prima. Solo così la città, erede di un antico globalismo imperiale, potrà essere, invertendo la rotta, segno efficace di unità nella pluralità.

     Ad additare questo esito è un vescovo di Roma proveniente dalle fila di un ordine religioso moderno, sorto nel XVI secolo quando la scoperta dell’America era già avvenuta. I gesuiti, più di ogni altro ordine, hanno programmaticamente assunto su di loro, fin dalle origini, il compito di confrontarsi con una dimensione mondiale e con la molteplicità delle culture. Il nome Francesco evoca sicuramente il «poverello d’Assisi» che ricevette dal crocifisso di S. Damiano il comando di restaurare la «casa di Dio»; tuttavia esso non è affatto incompatibile con un richiamo a Francesco Saverio, il compagno di Ignazio di Loyola che percorse l’Asia in lungo e in largo. La Compagnia di Gesù, la cui storia non è priva di errori e scelte sbagliate, resta tuttora (sia pure indebolita) l’ordine più capace, per sua intima vocazione, di proiettare il cristianesimo su scala mondiale.

     Il senso di oppressione che albergava in molti di noi e il timore di vederlo addirittura rafforzato dalla nuova nomina hanno indotto più di uno ad esclamare dopo l’inattesa elezione di Francesco: «Allora la Spirito Santo esiste ed agisce per davvero». Questo moto liberatorio di fronte a una breccia apertasi all’improvviso ha trovato un riscontro, di altro segno, in un pensiero più meditato. D’accordo, la storia non si fa con i “se” e con i “ma”; tuttavia il pensare si sviluppa largamente per via ipotetica. Allora è lecito chiedersi: «cosa sarebbe successo se Bergoglio fosse stato eletto nel conclave del 2005? Se così si potesse dire, lo Spirito Santo non ha forse perduto otto anni?». A questo pensiero, però, se ne contrappone un altro: «uno stile di papato vescovile che parte dall’urbe sarebbe stato possibile subito dopo il pontificato direttamente globale di Giovanni Paolo II? O è possibile solo ora a seguito del gesto di rinuncia di Benedetto XVI?». Proprio la seconda alternativa appare quella giusta: in virtù della sua conclusione, la stagione di papa Ratzinger ha dischiuso una inedita possibilità di esercitare il primato petrino.

     Come nella vita di tutti anche in quella di Bergoglio non mancano ombre, in lui collegate soprattutto all’epoca in cui era giovane provinciale dei gesuiti nella terribile Argentina sottoposta alla dittatura militare. Né si può sapere a priori come Francesco riuscirà a condurre effettivamente la barca di Pietro. Ciò non toglie che gli inizi sono stati tali da allargare il cuore.

Piero Stefani

 

 

424_Francesco, vescovo di Roma (17.03.2013)ultima modifica: 2013-03-16T11:15:00+01:00da piero-stefani
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Un pensiero su “424_Francesco, vescovo di Roma (17.03.2013)

  1. Apprezzo soprattutto l’acutezza e profondità con cui colleghi la rinuncia di Ratzinger all’elezione di Bergoglio. Un papa “doveva” rinunciare, sgomento e umile di fronte a difficoltà per lui non sormontabili affinché un altro papa proiettasse finalmente la Chiesa nel tempo che stiamo vivendo. Ma non dimentico, ahimè, che Francesco d’Assisi chiuse la sua vita “sconfitto” dall’istituzione, mentre Chiara lottò fino alla fine per difendere l’integrità del loro sogno di povertà. Ma oggi il papa è Francesco. Si può sperare, Stefani, si può sperare.

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