423_Quello di cui la società ha bisogno (10.03.2013)

Il pensiero della settimana, n. 423                            

 

 

 

 

     Che la società italiana sia in crisi è uno dei pochi punti fermi su cui tutti concordano. Naturalmente l’assenso corale già si sfrangia se si va alla ricerca delle cause.

     Un drammatico fatto di cronaca riferisce di due impiegate della regione Umbria uccise da un imprenditore (poi suicidatosi) a cui (per ragioni formali) era stato negato un finanziamento. Un mestiere tranquillo di solito giudicato più grigio che pericoloso si è trasformato in causa imprevedibile di morte. Sono immaginabili la costernazione e l’angosciato stupore di parenti e colleghi. «La vita è ingiusta» avrà esclamato qualcuno e non senza fondamento. Che la crisi economica c’entri come sfondo è certo; altrettanto sicuro, però, è che essa non è il solo motivo scatenante di una violenza omicida  avvenuta in un paese dove vige il porto d’armi.

     I suicidi per motivi economici aumentano. A proposito di questo dramma si sarebbe tentati di evocare la «livella» resa celebre da Totò: manager, imprenditori, cassaintegrati e disoccupati sono tutti ugualmente esposti alla disperazione; anche se non per tutti si pone allo stesso livello la questione se la vita valga davvero meno del benessere.

     Di fronte a un singolo caso concreto equivarrebbe a girare le spalle alla pietas rinfacciare ai suicidi di aver dimenticato la «gerarchia dei valori». Di contro, parlando in generale, è obbligo chiedersi se il diuturno prospettare l’ambito economico-finanziario come il motore di tutto non abbia infiacchito la resistenza d’animo di chi è tagliato fuori. Inoltre non è solo facile retorica sostenere che anni e anni dominati dal mito del successo hanno reso molte persone fragili di fronte a un depauperamento ormai incontrovertibile.

     Torna la domanda sulle cause. Un frammento dell’omelia pronunciata da mons. Luigi Negri nel corso della messa d’ingresso nella diocesi di Ferrara-Comacchio (3 marzo 2013) sembra non aver dubbi in proposito: «Il popolo di Dio è chiamato a prendere coscienza della sua assoluta originalità. Cristo è necessario all’uomo d’oggi per vivere in modo autentico la propria umanità. La radice negativa che è alla base di tutta la fatica, l’inconsistenza e la violenza della società è il rifiuto di Cristo». Si tratta di un linguaggio tipico di CL (mons. Negri è uno dei leader di quel movimento).  Al riguardo sarebbe corrivo limitarsi a indicare le inestricabili contraddizioni che sul piano pratico avvolgono quell’arcipelago in cui si mescolano fede, potere e interessi. Già più pertinente è domandarsi come mai si registri questo vasto rifiuto. A tal proposito i pastori non dovrebbero accantonare la riflessione sulla «contro-testimonianza» data da molti cristiani, laici o consacrati che siano. Tuttavia il discorso non può fermarsi neppure qui.

     Occorre chiedersi tanto se Gesù Cristo vada effettivamente presentato come risposta univoca a problemi di ordine sociale, quanto se sia dato di fondare in modo laico un’etica pubblica e una giustizia sociale. La risposta nel primo caso è «no» e nel secondo è «sì». Invertire i termini equivale a svilire sia la fede sia la capacità di bene insita nell’animo umano.

     La riflessione sulla parabola del «buon samaritano» (Lc 10, 29-37) è dotata di inestinguibile ricchezza. Anche nel nostro caso essa torna a essere pertinente, sia pure per un solo aspetto. La parabola è chiamata a illustrare il significato del comandamento contenuto nel libro del Levitico (19,18) che ordina di amare il prossimo come se stessi. Tuttavia il racconto proposto da Gesù si emancipa da quel precetto. Infatti, oltre a sospingere a farsi prossimo (in luogo di definire chi è il prossimo), la parabola si preoccupa di mettere in luce che il motivo che ha indotto il samaritano ad agire non è stata la messa in pratica del comandamento biblico. A muovere all’azione è stato il senso di intima compassione (verbo splanchizomai) provato nei confronti dell’uomo abbandonato mezzo morto sul ciglio della strada.

     Nell’ambito della fede si può affermare (come messo a suo tempo in luce dal card. Martini) che quello stesso verbo contraddistinse tanto l’atteggiamento di Gesù di fronte alla vedova di Nain (Lc 7,13), quanto quel che è proprio del Dio biblico ricco di misericordia. Il credente può affermare che alla radice di quel moto che spinge verso l’«altro» per trasformarlo in «prossimo» si trova il fatto che l’essere umano è stato creato a «immagine e somiglianza» di Dio (Gen 1, 26). Tuttavia a lui, in sede pubblica, è consentito sostenerlo solo in modo implicito, senza farne una dottrina valida per tutti, come se si trasformasse in giustificazione condivisa da chiunque operi sospinto da umana compassione. Al contrario, il credente dovrebbe trovare un motivo profondo di consolazione nel fatto che l’essere umano abbia in se stesso questa potenzialità di bene non legata né a una specifica appartenenza religiosa, né a una determinata cultura.

     Ciò di cui la società ha bisogno è di riscoprire l’umana capacità di trasformare l’«altro» in «prossimo» divenendo in tal modo «prossimo» all’«altro». Il pluralismo delle appartenenze e delle convinzioni non è un ostacolo perché ciò avvenga. Trasformare in steccati le convinzioni di ciascuno diviene, invece, un modo per mutare il «prossimo» in «altro».

Piero Stefani

423_Quello di cui la società ha bisogno (10.03.2013)ultima modifica: 2013-03-09T06:48:00+01:00da piero-stefani
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