425_Papa Francesco (24.03.2013)

Il pensiero della settimana, n. 425

 

     Nel 1961 Marie-Dominique Chenu individuava le caratteristiche proprie dell’età costantiniana in questi quattro punti: 1) la simbiosi dei poteri teologico e istituzionale; 2) il dogmatismo istituzionale (fondato sul logos); 3) l’umanesimo cristiano (fatto di dualismo materia-spirito; 4) un regime economico sociale feudale-borghese.

Molte di questi componenti sembrano in effetti ormai demolite dal corso della storia.

     Tuttavia quanto forse più di ogni altra cosa caratterizzava l’analisi del teologo domenicano stava nell’evidenziare che i fattori di disgregazione di quel sistema non sono imputabili tanto a cause esterne legate alla secolarizzazione, quanto a dinamiche interne alla fede. Infatti, in quegli anni aperti all’ottimismo molto più di quanto non siano gli attuali, Chenu additava i motivi disgreganti dell’assetto precedente in questi tre fattori: 1) il risveglio del fermento evangelico; 2) la necessità di una Chiesa missionaria nel suo aprirsi al mondo; 3) la rivendicazione della Scrittura da parte dei poveri.([1])

     A oltre cinquant’anni di distanza molte cose sono mutate. Tuttavia il vescovo di Roma Francesco appare ugualmente erede dei tre punti giudicati, all’inizio degli anni Sessanta, in grado di sgretolare, dall’interno, la rigidità di una Chiesa costantiniana. Siamo appena all’inizio; non sappiamo se quello di papa Bergoglio sarà davvero un pontificato in grado di segnare una transizione da un sistema all’altro. In larga misura ciò dipenderà dal fatto di come Francesco riuscirà ad evidenziare la contraddizione oggettiva entro la quale è chiamato a operare. Non è, infatti, pensabile che la Chiesa cattolica possa, già ora, conseguire un definitivo assetto post-costantiniano. Perché ciò avvenisse occorrerebbe un’eccezionale concorso di avvenimenti interni ed esterni, passaggio che lascerebbe dietro di sé molte macerie e vittime.

     Allo stato attuale, da un lato si registra l’aspirazione a una Chiesa che eserciti (come si sarebbe detto un tempo) l’«opzione preferenziale per i poveri» rendendoli, a tutti gli effetti, soggetti ecclesiali e che pratichi uno stile di Chiesa fraterno; mentre  dall’altro lato, vi è un papa e sommo pontefice  posto a capo della S. Sede che, in questa veste, intrattiene rapporti diplomatici con altri stati e riceve l’omaggio dei potenti della terra, che è al vertice di dicasteri curiali, che esercita un’azione politica, e amministra interessi economico-finanziari.

     Lo stile povero assunto dal vescovo di Roma Francesco comunica molto proprio perché si staglia su quello sfondo impossibile da mutarsi dall’oggi al domani. Quanto è immediato è la sua maniera di presentarsi. Il suo discorso a braccio pronunciato dalla loggia di S. Pietro subito dopo l’elezione resterà la «regola non bollata» di papa Francesco, testimonianza altissima e vera a cui non sarà possibile restare completamente fedeli: anche per lui, come per Francesco di Assisi, giungerà il tempo della «regola bollata». Si è già potuto vedere come il linguaggio emozionante e teologicamente fondato delle prime parole non è più del tutto lo stesso quando il papa legge, come è inevitabile, discorsi scritti (un genere letterario, non a caso, mai praticato da Gesù).

     Nelle parole da lui rivolte a altri esponenti cristiani, papa Bergoglio ha, per esempio, fatta propria la classica distinzione proposta dalla dottrina cattolica che parla di «Chiese» (nel caso di quelle dotate di successione apostolica, gli ortodossi) e  di «comunità ecclesiali» per le altre. Secondo la lettera di quel discorso, quelle protestanti non vanno perciò considerate autentiche Chiese. Su queste basi non è pensabile  che si apra la via all’intercomunione, atto che rappresenta il vero e proprio sigillo dell’unità dei credenti in Gesù Cristo. Inoltre, rivolgendosi al corpo diplomatico, Francesco non solo si è presentato come papa, ma ha addirittura proposto un’interpretazione positiva della qualifica (di origine pagana) di «pontefice» (sia pure privo dell’aggettivo «sommo»). Ancora, evocando il suo «venerato predecessore», ha parlato di «dittatura del relativismo» come tratto caratterizzante la ricca povertà dell’Occidente.

     Non è il caso di muovere osservazioni critiche a papa Bergoglio. Le uniche critiche da avanzare sono riservate a coloro che presentano le modifiche nello stile come se comportassero, ipso facto, cambiamenti strutturali. Il comportamento personale è un tratto fondamentale ma non è tutto. Può spacciarlo come tale solo chi ritiene che l’universo mass-mediatico coincida con il mondo; vale a dire chi reputa che l’oggetto s’identifichi con il suo apparire. Né si può negare che, per molti versi, le cose stanno effettivamente così. Ma è proprio questa situazione a esporre il povero messaggio evangelico proposto dal vescovo di Roma alla più  autentica e pervasiva «dittatura del relativismo». Per affermare un cambiamento non basta evidenziare la presenza di scarpe nere in luogo di quelle rosse; anzi non sarebbe sufficiente neppure zumare su un ipotetico paio di sandali francescani indossati dal vescovo di Roma (il che, peraltro, sarebbe un gesto dotato di straordinaria efficacia simbolica).

     L’augurio più profondo e sincero da rivolgere a Francesco all’inizio del suo pontificato è che viva, da papa, il dramma di non poter essere compiutamente vescovo di Roma che presiede nella carità e ama la povertà. Il sommo pontefice è chiamato a essere all’altezza della contraddizione in cui oggettivamente si trova. Per farlo – e siamo certi che lo faccia – deve rivolgere il proprio sguardo e il proprio cuore a Gesù che iniziò la sua vita pubblica annunciando la buona novella del regno ormai vicino e finì i suoi giorni morendo sulla croce.

Piero Stefani

 




[1] M.D. Chenu., La fin de l’ère constantinienne (1961) cit. in G. Zamagni, Fine dell’età costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, il Mulino, Bologna 2012, p. 27.

425_Papa Francesco (24.03.2013)ultima modifica: 2013-03-23T11:15:00+01:00da piero-stefani
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