406_Nessuno ha mai visto Dio (11.11.2012)

Il pensiero della settimana, n. 406

  

     L’espressione biblica «nessuno ha mai visto Dio» – posta come titolo all’ultimo libro di Gabriella Caramore[1] – è formulata in modo negativo. Presa in se stessa esclude la possibilità di esperire visivamente l’Altissimo. Tuttavia questo passo, proveniente dalla prima lettera di Giovanni, non è un modo per ribadire semplicemente che Dio è invisibile, il che è ovvio. Chi mai scriverebbe «nessuno ha visto un suono»? È scontato che l’occhio non sia l’orecchio, così comune lo è il fatto  che ogni organo abbia il suo specifico campo di riferimento: i polpastrelli non colgono i sapori e con la lingua non si percepiscono i profumi.

     «Nessuno ha mai visto Dio» è una frase troncata, implica un non detto. Va completata  con quanto la prima lettera di Giovanni esplicita e il titolo del saggio di Caramore sottintende. Letto nella sua interezza il verso suona così: «Nessuno ha mai visto Dio. Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi, e l’amore di lui è perfetto in noi» (1Gv 4,12). L’invisibilità di Dio è correlata alla centralità attribuita all’amore tra i discepoli. Se invece di quest’ultima  formulazione ne avessimo un’altra che parla della centralità dell’amore interumano incontreremmo  il messaggio centrale del libro di Caramore. Esso, più che nella custodia del non detto, si rivolge alla dimensione della traccia: «Quando, in tutta la Bibbia, si parla del “Dio vivente” non credo sia a una formula antropomorfica che si ricorre, quanto alla rintracciabilità di Dio nella vita delle creature» (pp. 51-52). In definitiva, Dio è «rintracciabile» là dove è invisibile.

     L’affermazione vale anche per la Parola che comunica il legame tra l’invisibilità divina e l’amore interumano? In altri termini, la traccia di Dio è rintracciabile, oltre che nel volto umano, anche nella Bibbia, testo visibile in quanto scritto e invisibile in quanto parola? La conduttrice di «Uomini e profeti» (trasmissione da tempo dedicata a una presentazione integrale della Bibbia cristiana )  non si sottrae a questo tema. A tal proposito, evoca la parola del libro di Isaia che contrappone la durata della parola al seccarsi dell’erba e all’appassire  del fiore (Is 40,8). Ci si riferisce anche  all’atto di paragonare la parola di Dio alla pioggia e alla neve che ritornano al cielo solo dopo aver avuto il loro effetto (Is 55,10-11). Dopo averle citate, Caramore asserisce di sentire in questi come in altri passi biblici «qualcosa che vale per sempre, che per sempre ci chiede di metterci ancora e di nuovo in ascolto di questa voce». Eppure…

     Esistono altre istanze di segno contrario. Esse però sono spesso consegnate a una zona oscura della coscienza. Si tratta di domande oggi indebolite, infiacchite sotto il peso della mancanza di vere risposte. Tuttavia riemergono. Sono soprattutto tre. Per quale ragione si è obbligati a pensare che la parola di Dio sia contenuta in modo esclusivo in un libro e non sia invece rintracciabile a più vasto raggio in tutte le creature? La Bibbia è connessa a una delimitazione discriminante tra chi la legge e la recepisce come parola di Dio e chi non adotta questi parametri. La creazione invece appare più larga della Scrittura, nessuno ne resta escluso, né il filo d’erba, né l’antico animista, né il contemporaneo ateo. Ciò ci conduce dritto alla seconda questione: Dio ha forse voluto «costringere la sua Parola nel libro fondativo della nostra civiltà, e non nel libro fondativo di altre civiltà, di altre culture e di altre religioni? Dovremmo supporre che il Dio unico sia il Dio solo nostro? Che si sia rivelato pienamente solo a noi (guarda caso, la civiltà fino ad ora dominante), e presso altri popoli esistano al più dei “semi” del Verbo?» (p. 33) (vale a dire abbozzi di quella verità che è piena soltanto in noi?). Infine esiste una questione antica ma non per questo tramontata: vi sono  prescrizioni e contenuti biblici (tutti riconducibili in definitiva alla categoria della violenza)  inaccoglibili per la nostra coscienza.

     Il più profondo sigillo di sincerità inscritto in questo volumetto è riassumibile in una sola frase: non si può fare a meno della Bibbia e non ci si può affidare solo a essa. La sua parola dura per sempre, ma non è l’unica parola. È un crinale non agevole da percorrere. La parola biblica ha in sé una pretesa «monogamica» che instilla nell’animo del lettore che ad essa si affida un senso di tradimento quando egli si rivolge ad altre parole ponendole sullo stesso piano di quelle della Scrittura. Decostruire quella pretesa di assolutezza in questo caso significherebbe depotenziare la Parola. Eppure…

     Più  volte si è affermato che Dio è più grande delle religioni; qualche volta si è detto  che l’affermazione assume il suo autentico spessore quando è pronunciata a partire dalla piena adesione a una determinata religione. Al di là della strutturale inadeguatezza del termine «religione», qui sembra davvero risuonare una voce non lontana dalla verità; specie se ciò comporta sostenere che Dio è più grande anche della distinzione «religione» «non religione» (cfr. pp. 53-54).

 

Piero Stefani




[1] G. Caramore,  Nessuno ha mai visto Dio, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 75, €10.00.  Questo pensiero non è una vera e propria recensione, sono spunti di riflessioni derivati dalla lettura del volumetto.

406_Nessuno ha mai visto Dio (11.11.2012)ultima modifica: 2012-11-10T10:45:00+01:00da piero-stefani
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