405 _ Decadenza (04.11.2012)

Il pensiero della settimana, n. 405  

 

Per millenni quasi tutte le civiltà apparse sul pianeta hanno elaborato visioni del tempo che comportavano la prospettiva della decadenza. Come la vita individuale, anche quella delle società era destinata a infiacchirsi fino all’estinzione. Come nel caso dell’araba fenice, solo a partire dalle ceneri ci può essere rinascita. Ciò non valeva solo quando dominava il mito dell’eterno ritorno. Pure all’interno delle tradizioni giudaica e cristiana il senso dello sgretolamento dell’esistente è stato a lungo presente. Anche nell’Occidente moderno, che ha spinto tante volte lo sguardo in avanti e ha colto l’avvenire all’insegna di un continuo crescere, l’idea di progresso e quella di decadenza si sono spesso intrecciate. La cultura del secondo Ottocento ha fornito frequenti prove di una simile dialettica: accanto al senso del progredire vi era quello del finire. Per dirne una, molti allora ritenevano che il modo di produzione capitalistico avesse i giorni contati.

Oggi la parola «decadenza» sembra essere, per molti versi, a sua volta decaduta. Al suo posto è subentrato il termine «crisi». Questa sostituzione è dovuta al  primato oggi goduto dalle questioni economico-finanziarie colte in un’ottica liberista. Si può parlare di crisi grazie al sottointeso secondo cui si tratta di fenomeni temporanei. È proprio infatti della vita economica capitalista produrre periodicamente crisi da cui si esce attraverso ristrutturazioni più o meno radicali. La dialettica è tra sviluppo e recessione e non già tra progresso e declino. Nessuno oserebbe sostenere che l’economia italiana è in decadenza, essa è solo in crisi. Solo così si può evitare la  condanna definitiva di un linguaggio politico ancora impregnato della positività attribuita alla parola «sviluppo». Al giorno d’oggi, i teorici della decrescita costituiscono ancora una esigua minoranza che anima movimenti soprattutto intellettuali senza aver conquistato alcuna legittimità nella retorica politica. Tutti attendono la ripresa e la prospettano come un semplice rilancio dell’economia attuale. Si pensa alla fine  della crisi, non a quella di un modello economico fallimentare.

L’inesorabile progresso delle tecnologie rende difficile pensare a un ritorno all’indietro (tuttavia si è pur smesso da decenni di far calpestare la luna da piedi umani). Perciò l’idea (se non il termine) di decadenza è tutto concentrato sull’aspetto morale. Ma qui si è legati non già allo sviluppo, bensì alla reiterazione. Per limitarci a un solo esempio, in un sermone pronunciato nel 1829 si denunciava «lo scombussolamento e la corruzione dei legami familiari»[1]. Da allora il linguaggio ecclesiastico non è, in sostanza, mutato; eppure il senso della famiglia, per quanto profondamente ridefinito, non è scomparso. A essere in decadenza, in realtà, è l’eticità non la morale (realtà da sempre fragile). Con il primo termine ci si riferisce  infatti a una copertura istituzionale (tanto religiosa quanto civile) che costringe al pubblico rispetto di determinate regole. Non importa poi se sul piano squisitamente morale le cose vanno per un altro verso. Come ben sapevano nel XIX secolo, la famiglia borghese stava in piedi a motivo della legittimazione de facto delle amanti e de jure e de facto delle case di tolleranza.

È quindi auspicabile recuperare il senso della decadenza a livello più ampio? È necessario di certo riacquisire  uno sguardo lungo che sappia tanto cogliere il futuro in maniera diversa da un semplice potenziamento del presente, quanto accettare il fatto che ogni svolta storica radicale è, per definizione, traumatica. Ciò vale anche per chi ha una visione di fede. L’accoglimento delle parole di papa Giovanni che prendevano risolutamente le distanze dai «profeti di sventura che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo» (discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962) non esige di rimanere convinti in maniera anacronistica dell’esistenza di «magnifiche sorti e progressive». Vi sono anche altre piste da seguire. Verso la fine dell’ultimo libro del card. Etchegaray (L’uomo a che prezzo?  San Paolo, Cinisello Balsamo 2012) si legge  che,  cinquant’anni dopo il Vaticano II, «il centro di gravità è scivolato verso l’uomo, non verso l’uomo tentato di prendere il posto di Dio, ma verso un uomo che risente dolorosamente delle sue molteplici alienazioni» (p. 123). Queste parole scritte da una persona novantenne attestano, da sole, la differenza che c’è tra il primato della misericordia e quello della condanna. Per sottoscriverle non occorre sposare un’antropologia ottimistica che chiude gli occhi verso le degenerazioni reali e potenziali di cui sono capaci gli esseri umani. Per chi crede nel Vangelo, il solo modo autentico per non concedere ai profeti di sventura l’ultima parola sta nell’affidarsi all’irriducibile primato della misericordia di Dio. È essa a indurci, nonostante una moltitudine di evidenze empiriche contrarie, a credere  in una inestinguibile capacità di bene presente negli esseri umani.

Piero Stefani




[1] Cit. in E. Weber, Le apocalissi. Culti, attese e profezie, Garzanti, Milano 2000, p. 25

405 _ Decadenza (04.11.2012)ultima modifica: 2012-11-03T17:06:46+01:00da piero-stefani
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