404_A proposito di un prossimo anniversario (28.10.2012)

 

 

A proposito di un prossimo anniversario

 

Nel 2013 si celebrerà il diciassettesimo centenario del cosiddetto «editto di Milano», con cui fu concessa libertà di culto ai cristiani. Con Costantino, nome storico ma anche simbolico,[1] inizia una fase nuova del cristianesimo. L’affermazione è tanto ovvia da suonare banale. Essa però acquista spessore quando ci si comincia a domandare dove si trova il fulcro di questo mutamento. Il diffuso fraintendimento che con quell’imperatore il cristianesimo sia diventato religione di stato (fatto in realtà avvenuto solo sotto Teodosio) è spia di dove vada a parare la precomprensione corrente: a essere messo al centro della questione sono i rapporti religione e potere. La prospettiva non è infondata; tuttavia è bene allargarla, infatti il più autentico orizzonte in cui cade il problema è quello – per usare un’espressione in voga qualche tempo fa – del rapporto Chiesa-mondo. All’interno di questo quadro più vasto, si situa anche il discorso politico.

Già prima del IV secolo, i cristiani avevano la convinzione di aver ricevuto grazie al vangelo la parola definitiva per la salvezza del mondo. Ciò però avveniva in un contesto in cui il potere non era cristiano, mentre la società lo era solo in piccola parte. La situazione non sminuiva la pretesa cristiana di «assolutezza»; tuttavia essa doveva manifestarsi in una maniera non «imperiale». Il piccolo gruppo riteneva di avere dalla sua la capacità di incidere profondamente sul tutto; ma lo faceva in modo paradossale abitando nella città comune e subendo persecuzioni. La situazione era destinata a mutare radicalmente nell’epoca costantiniana. Da quel momento in poi fu la storia del mondo a dover fornire la prova della vittoria del cristianesimo. La svolta comportava una tangibile constatazione dell’umiliazione degli empi e del benessere proprio. I bersagli divennero principalmente due: i pagani e gli ebrei. Accanto all’atterramento dei culti pagani, occorreva, infatti, mostrare l’umiliazione degli ebrei. Tuttavia gli dèi falsi e bugiardi dovevano essere eliminati, mentre il Dio d’Israele andava mantenuto. Il popolo ebraico nella sua sconfitta storica divenne allora prova della verità cristiana. In questa prospettiva un peso enorme fu attribuito alla fine del culto ebraico. Nel IV secolo venivano abbattuti i templi pagani, ma quello di Gerusalemme dedicato al Dio unico e vero era stato raso al suolo già nel 70 d. C. La sua distruzione ebbe luogo, si sostenne,  perché lo aveva predetto Gesù. Un simile convincimento spiega il motivo per cui un imperatore colto come Giuliano pensò, per rilegittimare l’antica religione politeista, di riedificare il luogo di culto situato sulla collina di Sion. I paradossi della storia avrebbero in tal modo condotto a far sì che la riapertura dell’unico santuario dedicato all’unico Dio d’Israele giustificasse quella di molti templi consacrati a una moltitudine di dèi. Il condizionale è però d’obbligo, in quanto l’impresa, effettivamente iniziata, non fu mai portata a termine. Ciò si ripercosse sulla visione propria dei cristiani i quali divennero ormai del tutto convinti che la storia  desse loro definitivamente ragione. In questo contesto il fallimento del tentativo di Giuliano di ricostruire il tempio di Gerusalemme fu assunto come prova inconfutabile che Gesù Cristo era Figlio di Dio. La predizione si era rivelata più potente degli sforzi umani, poiché – come disse Giovanni Crisostomo – Gesù con la sua parola sconfisse, oltre che l’imperatore Giuliano, «tutto il popolo ebraico».

La storia era divenuta cristiana. Come sempre si pone in rilievo, i cristiani da  perseguitati si tramutarono in persecutori. È vero; c’è però dell’altro. Un punto ancor più nevralgico sta nel fatto che chi cerca conferme della propria verità nella storia si espone, ispo facto, a essere smentito da quest’ultima. Un cristianesimo che affida alla vittoria storica la conferma pubblica della sua verità è, in realtà, debole perché insidiato dal rischio di venir confutato. Usando il metro lungo della storia, non occorse molto tempo per averne un esempio. La smentita venne dalla nascita e dalla fulminea espansione dell’islam. Quattro secoli dopo Costantino, le terre in cui nacque il cristianesimo si trovavano tutte sotto dominio musulmano; i cristiani restati in quelle zone da allora in poi vissero come minoranze. Di fronte a questi fatti, chi non volle rinunciare a una concezione imperiale del cristianesimo, considerò le terre ancora rimaste cristiane sottoposte a una specie di assedio. Lo spirito di crociata sarebbe diventato la più celebre risposta a questa situazione. Da allora fino a oggi, per un cristianesimo che cerca nella storia la propria conferma è sempre difficile fare i conti con l’islam.

Mutatis mutandis lo stessa sensazione e la stessa modalità di risposta furono avanzate da una parte consistente del cristianesimo quando ci si dovette confrontare con  il mondo moderno. In Occidente la laicizzazione della società e della cultura suscitò in molti cristiani la convinzione di essere assediati. Il fenomeno provocò, da un lato, un atteggiamento di arroccamento e, dall’altro, alimentò la volontà di costituire alcune teste di ponte all’interno della società.

Con il Vaticano II, la Chiesa cattolica ha cercato, in buona misura, di mutare strada e di riconoscere la positività di alcuni valori derivati dallo spirito di laicità. Ciò comportò imboccare la via del dialogo con il «mondo». Per alcuni versi l’operazione si prospettò, però, come un semplice rovesciamento del complesso dell’assedio. L’apertura fu infatti non di rado giustificata in virtù dell’assunzione di parametri progressisti ed evolutivi che cercavano – sia pure per una via ben diversa da quella «imperiale» – di trovare riscontri storici al messaggio cristiano. Un certo modo di intendere i «segni dei tempi» si mosse, per esempio, in tale direzione.

Quando si legge la storia in modo ottimistico, non vi è nulla di più facile che andare incontro a disillusioni. Capitò anche allora. Questo stato di cose ha contribuito a innestare una controspinta. Essa è propensa a considerare il cristianesimo ancora sottoposto ad assedio. Da questa percezione scaturisce il desiderio di assicurarsi almeno alcune piazzeforti all’interno della società. Si tratta di risposte inadeguate. La situazione attuale invita, infatti, i cristiani ad accettare la condizione di essere minoranza non settaria all’interno della società. È una situazione conforme a quanto è più proprio alla fede. Tuttavia per comportarsi secondo queste linee occorre assumere uno stile di vita paradossale. Bisogna infatti professare un’«assolutezza mite e critica». L’istanza autentica contenuta, sia pure in maniera impropria, nell’atteggiamento tradizionalista sta nel fatto che chi è chiamato a testimoniare il vangelo non può presentarlo come una verità posta sullo stesso piano di  altre. È però proprio il suo statuto diverso a esigere la mitezza (cfr. Mt 5,5) quale condizione imprescindibile della testimonianza (cfr. 1Pt 3,15-16). Dal canto suo «critico» è aggettivo laico consono alle attuali circostanze in cui si trova la fede cristiana. Parlare di stile «profetico» è troppo alto. In ogni caso la profezia si colloca nella dimensione del dono, mentre lo sguardo critico (nel senso etimologico di «giudicare») è frutto di impegno, di coraggio e di una libertà goduta soltanto da chi si è liberato dal fardello del dominio.

Una delle richieste collegate all’essere minoranza non settaria è l’accettazione sincera tanto del pluralismo religioso quanto della presenza di visioni del mondo ispirate a principi laici. All’interno di società pluraliste ogni religione è consapevole dell’esistenza di altre comunità religiose. Questo dato di fatto richiede alle singole comunità di legittimare, anche in linea di principio, l’esistenza della pluralità. Ciò implica che esse prendano le distanze da posizioni, comuni in epoche storiche precedenti e non del tutto superate neppure oggi, che rivendicavano a una singola religione il godimento di una posizione esclusiva o quanto meno egemonica all’interno della società. Quando si giudica questa rinuncia non come un’anomalia, ma come la condizione propria della vita delle comunità cristiane si è davvero usciti da ogni nostalgia per l’«età costantiniana».

Piero Stefani

 

 




[1] Cfr.  G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva geneaologica di un concetto critico, prefazione di G. Ruggieri, il Mulino, Bologna 2012.

404_A proposito di un prossimo anniversario (28.10.2012)ultima modifica: 2012-10-27T07:55:00+02:00da piero-stefani
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