400_L’anno della fede (30.09.2012

L’anno della fede[*]

 

L’undici ottobre prossimo inizierà l’anno della fede. Quali ragioni hanno spinto a intraprendere una simile iniziativa? Perché sottolineare in modo particolare quanto, per definizione, si presenta come comune? È come se si dicesse che è indetto un anno del respiro. È lecito affermarlo come un pretesto per riflettere, ma si tratta di una componente del tutto estrinseca e marginale. Gli anniversari non stabiliscono la grandezza dell’artista, dello scrittore o del musicista che si sta celebrando. L’anno della fede va visto come un’occasione assolutamente minore nella vita di fede. Un tratto estrinseco e, appunto, occasionale.

Cosa vi si celebra? I cinquant’anni del Concilio e i venti anni del Catechismo della Chiesa Cattolica presentato come frutto autentico del Vaticano II e quindi chiave ermeneutica del medesimo. L’altro richiamo contenuto nel Porta fidei, il motu proprio con cui Benedetto XVI ha indetto l’anno della fede, è l’analoga celebrazione voluta da Paolo VI nel 1967 (diciannovesimo centenario del martirio di Pietro e Paolo) presentato come un evento particolarmente salutare a motivo dei «grandi sconvolgimenti che si verificarono in quell’anno» (l’ombra del Sessantotto non abbandona mai Joseph Ratzinger).

 Dei due anniversari, Vaticano II e Catechismo, è il secondo a essere, de facto, considerato il più utile. Si afferma infatti che in quel documento i contenuti della fede sono esposti in modo sistematico (n 11). I meno giovani si ricorderanno che un tempo frequentare il catechismo equivaleva ad «andare alla dottrina». Sembrano ritornati quegli anni. Il motu proprio invita a rileggere non il Concilio ma il  Catechismo della Chiesa Cattolica, testo in cui, si sostiene, sono confluiti in una sapiente sintesi Scrittura, Padri e Dottori. Ma la fede per essere tale ha bisogno di contenuti sistematizzati?

Il Credo – documento ben più venerabile del Catechismo – espone senza dubbio alcuni dei massimi contenuti della fede,  ma non è certo la sola espressione della fede. Anche limitandosi ai contenuti, molte sono le cose che non vi sono presenti. Lì, per esempio, non si parla del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe; non vi compare cioè quello che, da sempre, è presentato come il modo paradigmatico per riferirsi al Dio biblico. Nel Credo non ci si riferisce neppure agli atti e alla predicazione di Gesù. Vano sarebbe trovarvi le Beatitudini, o altre parti del «Discorso della montagna», vale a dire i brani che, con usurata metafora, sono definiti la «Magna Charta» del cristianesimo.

È quanto meno sconcertante prendere atto della mancanza nel Porta fidei del più semplice (in senso alto) dei consigli: in quest’anno rileggete (o leggete) i quattro vangeli.

Lo spostamento dell’attenzione verso il Catechismo fa tutt’uno con il primato attribuito alla fides quae (i contenuti della fede) e alla corrispettiva sottovalutazione della fides qua (l’atto di affidarsi proprio del credere). La scelta consente di auspicare che «ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre». Si può forse trasmettere qualcosa di diverso dai contenuti? In realtà non si dà alcuna trasmissione della fede quando, come è giusto, si privilegia l’atto del credere proprio di ciascuno. Quanto si può trasmettere sono solo i racconti, le prassi e gli insegnamenti che rendono possibile la fede. Il credere dipende da una scelta del «cuore». Il motu proprio, invero, prospetta un’unità profonda tra l’atto con cui si crede (fides qua) e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. A sostegno viene citato un passo di Paolo «con il cuore (…) si crede e con la bocca si fa la professione di fede» (Rm 10,10). A partire da questo passo si  sottolinea l’aspetto pubblico (n. 10) ma anche contenutistico della fede. Tuttavia quando, citando Agostino, si ripete che «i credenti si fortificano credendo» (n.7) ci si riferisce a determinati contenuti o si sta piuttosto imboccando  una via che conduce ad affidare più intensamente a Dio le proprie vite? Le pagine del  vangelo scelgono sicuramente la seconda alternativa.

Il n. 13 del Porta fidei comincia con un riferimento a Ebrei  12,2, in cui Gesù Cristo è presentato come colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Si tratta di un versetto posto alla fine della sezione che inizia con la più celebre tra le definizioni di fede presentata come «fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1). In realtà si tratta non di una definizione, ma di una premessa che si dipana e si concretizza nel ripercorrere una lunga catena di credenti, da Abele fino ai profeti e ai martiri, tutti costoro, «per fede», hanno sperato (Eb 11,4-38). Il motu proprio, senza dirlo esplicitamente, ricalca questo stesso procedere da Gesù Cristo in poi e inanella una serie di passaggi anch’essi retti dal «per fede»: si inizia con Maria e si perviene a tutti coloro che nei secoli hanno testimoniato la bellezza della fede (n. 14). Non si compie alcun cenno alla speranza; del tutto assente è anche ogni riferimento ai credenti dell’Antico Testamento (in tutto il documento non compare alcuna citazione tratta dalla prima parte della Bibbia cristiana). Nel testo pontificio non c’è spazio per Abramo nostro padre nella fede. Domandiamoci: si può professare la fede in Gesù Cristo senza far memoria viva delle più antiche testimonianze di fede? Si aggiunga che nella tradizione cristiana «la sostanza delle cose sperate» non riguarda solo una storia passata giunta al suo compimento, essa concerne anche noi. Non c’è fede senza speranza. Nel Padre nostro diciamo «venga il tuo regno» e non  «il tuo regno è già venuto».

Il non ancora riguarda intimamente la fede. Essa è in se stessa tanto un «già» quanto un «non ancora». Quel che bisogna continuare a dire nell’anno della fede è la povertà del nostro credere. È quanto fece il padre del ragazzo indemoniato di cui si parla nel vangelo di Marco; egli proclamò ad alta voce sia di credere sia di aver bisogno di essere aiutato nella sua non fede (apistia) (Mc 9,23-24).  Il grido pubblico consono a chi si pone alla sequela di Gesù è ancora connesso alla presenza di una apistia interna alla fede che esige di essere aiutata.

Piero Stefani




[*] In questo «pensiero»  si riprendono alcuni spunti della conversazione tenuta nella parrocchia di Santa Francesca Romana di Ferrara il 23 settembre 2012.

400_L’anno della fede (30.09.2012ultima modifica: 2012-09-29T10:18:07+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “400_L’anno della fede (30.09.2012

  1. Caro Piero, hai ragione, non c’è un cenno alla fede di Israele, nè dei padri della fede, Abramo, Isacco, Giacobbe, ecc., nè delle donne, Deborah, Anna, Sara…fino a Elisabetta e Maria. La fede è diventata una questione di dottrina, ma quelle donne e quegli uomini non avevano nessuna dottrina. Il fatto è che la fede non è circoscrivibile in un reticolo di norme…è tutt’altro, e quando è autentica è norma a se stessa.
    Grazie di tutto
    Elena

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