401__Scritte e luoghi (07.10.2012)

 

 

Scritte e luoghi

 

 

Cremona. Galleria pesantemente fascista. Tutto tende  ad attribuirla a sventramenti avvenuti negli anni Trenta. È facile immaginare passeggiare là sotto Farinacci e altri ras della zona. All’ingresso, a caratteri cubitali ormai piuttosto scoloriti dal tempo, è, insolitamente, scritto il suo nome (le gallerie non ce l’hanno quasi mai in grande evidenza): «Galleria XXV aprile». Un altro paradigmatico esempio di ipocrisia italica a cui pare sufficiente, per fare i conti con il passato, cambiare etichetta.

 

Trento, via della Pontara. La strada inizia ripida e stretta per poi spianare e proseguire a gobbe alle spalle del castello del Buonconsiglio. All’imbocco una pagina di giornale “sottovetro”, evidenziata in giallo, indica che ci sono stati problemi di traffico e ne richiede la pedonalizzazione. A colpire è però soprattutto un’altra immagine in bianco e nero di formato all’incirca 60×40 cm. Vi è disegnata in modo stilizzato una lumaca, sotto di essa vi è scritto in caratteri sinuosi: «Va’ lentino». Un garbato segno di civiltà, ben diverso dalle mute eppur strillanti scritte frequenti sui nostri muri.

 

Trento, la centrale via Rodolfo Belenzani. Su un edificio basso attiguo alla torre Mariana, attualmente adibito a sede dei gruppi consiliari, vi sono due lapidi. A sinistra ve ne è una più segnata dal trascorrere del tempo. In essa si legge: «Nella gloria dei trentini morti per la patria rifulga esempio a venturi la virtù di tre generazioni». Seguono molte decine di nomi. Non si legge alcuna data, non si fa riferimento esplicito ad alcuna guerra, la genericità maschera un imbarazzo già allora evidente. A destra la lapide è di un marmo assai più candido. Vi è scritto: «A perenne memoria dei MILLE suoi figli soldati dell’imperial regio esercito austro-ungarico caduti nel conflitto mondiale 1914-1918. Affinché non vengano dimenticati la città di Trento pose. 26 luglio 2008». Il fatto che la memoria salvi qualche frammento dal mare dell’oblio fa sì che, quando essa è pubblica, sia guidata da uno strabismo variabile a seconda delle epoche.

 

Conoscere comporta comparare. È storia antica. L’operazione è compiuta per affinità o per dissomiglianza. Si capisce la ferrarese Addizione erculea non solo quando, dal castello estense, si guarda il rettilineo acciottolato di via Ercole I d’Este (un vero e proprio canale di sassi), ma anche quando a Mantova si vede la posizione eccentrica del grandioso complesso del palazzo ducale. Nel corso dei secoli i Gonzaga hanno espanso il loro edificio rendendolo una cittadella entro la città; Ercole (con l’ausilio di Pellegrino Prisciani e Biagio Rossetti) ha invece allargato la città collocando così  al centro la sua magione. Il Duca lo ha fatto in una maniera tanto risolutiva che ora è quasi impossibile immaginare che il castello costituisse il confine nord della città. Il complesso gonzaghesco è un enorme  palazzo che custodisce opere somme (basti pensare alla «Stanza degli sposi»), mentre il castello estense è, prima di ogni cosa, fulcro urbanistico.

 

A quanto sembra, al giorno d’oggi,  il latino è reputato lingua inaccessibile; tradurne una riga è ormai paragonabile alla decifrazione della stele di Rosetta. Mantova è una città che porta in se stessa profonde tracce della presenza asburgica. Tra esse vi è l’enorme ex ospedale militare. In alcuni periodi nel mantovano erano di stanza 150.000 militari, un numero assai più elevato di quello della popolazione residente. L’ingresso dell’edificio, ora adibito a biblioteca e ad altre attività comunali, si affaccia sulla piccola piazza San Leonardo. Al di sopra della porta d’ingresso vi è una scritta in marmo, piuttosto logorata, specie a confronto delle altre parti dell’edificio sottoposto a recenti lavori di restauro. Il suo contenuto è riprodotto in un pannello in plastica trasparente abbastanza elegante posto affianco allo stipite sinistro. Vi si legge: «Sanando Militi Joseph II posit. MDCCLXXXVI», subito sotto è scritto: « “Per sanare i militari Giuseppe II (d’Asburgo, imperatore) edificò. 1786”. Traduzione Prof. Rodolfo Signorini».

All’inizio del XXI secolo, per conquistare il titolo di pubblico decifratore, occorre assai meno fatica di quella richiesta a suo tempo a Jean-François Champollon.

 

In attesa della conclusione di infiniti lavori di restauro nel duomo di Torino la sindone si trova in fondo a sinistra sotto il palco reale. Quest’ultima espressione va presa assolutamente alla lettera. Ben poco, a parte la sua forma squadrata, la distingue da un palco teatrale: ori, angeli musicanti e sopra di tutto lo stemma dei Savoia. Da lì la casa regnante assisteva, si può ben dire, allo spettacolo della messa. La sindone sta sotto. A prescindere dalla sua autenticità, la reliquia testimonia una regalità antitetica a quella dei sovrani di questo mondo.  Forse la sua attuale, umiliante collocazione è persino quella giusta. Tuttavia stringe ugualmente il cuore vederla sovrastata da questi simboli di un antico potere mondano. In ciò si percepisce qualcosa del paradosso della croce. E se la sovranità dei Savoia è ormai vuoto simulacro teatrale, non mancano oggi altri e più potenti simboli che ne hanno preso il posto.

 

Piero Stefani

401__Scritte e luoghi (07.10.2012)ultima modifica: 2012-10-06T07:03:00+02:00da piero-stefani
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