344. Ricevere una lettera (12.06.2011)

Il pensiero della settimana, n. 344

 

La donna che legge una lettera di Vermeer al Rijsksmuseum di Amsterdam è una  piccola, immensa tela. Accanto a un tavolo, circondata da alcune sedie vi è una donna incinta, tra le mani tiene un lettera che i suoi occhi stanno leggendo (o rileggendo). Dietro, appesa alla parete, vi è una grande carta geografica. Nel quadro appare evidente il senso di una distanza e di una presenza . La lettera è la forma classica in cui, per secoli, si è fatto presente chi era distante, In un popolo alfabetizzato, la parola scritta e la grafia sono il sigillo di una individuazione certa: sì, è proprio lui.

La carta  geografica indica che si è in un ambiente di navigatori, marinai, mercanti impegnati in viaggi della durata di anni. L’emozione suscitata dal quadro è anche derivata dal fatto che la donna è incinta; tutto lascia credere che il padre sia colui che ora le fa giungere la lettera. Il maschio feconda e poi può allontanarsi, prendere le distanze; a lui è concesso di separarsi dall’effetto del suo atto. La donna custodisce dentro di sé il concepito. Quella maschile è sempre una presenza distante. La lettera sembra qui assicurare che lui, che ha fatto germinare la vita in lei, è solo fisicamente lontano: in realtà il suo desiderio sarebbe di esserle accanto.

   È possibilità aspra data al maschio di rifiutare di assumersi la responsabilità dell’atto da lui compiuto.   

   Gli è dato di farlo semplicemente allontanandosi, fuggendo. A lui non occorre compiere alcuna azione direttamente violenta; non ha bisogno di attuare la scelta di sopprimere la vita che ha dentro di sé. Il nascituro non è in lui, è in lei. La lettera tra le mani della donna, il suo sguardo attento, l’intensità che traspare dal suo volto, gli occhi che scorrono le righe provano che, in questo caso, la lontananza non ha significato una fuga. Essa è dovuta ad altro: alla fatica richiesta per procurarsi da vivere che, a volte, impone di separarsi dagli affetti più cari. L’interno della casa rappresentato da Vermeer non è povero. Si pensa più a un ufficiale o a un mercante che a un semplice marinaio o a un mozzo. Forse è lecito attribuire a quella donna un pensiero presente in molte sue colleghe nostre contemporanee: la vita esige davvero tutti i viaggi per motivi di lavoro compiuti dal mio uomo? Non sarebbe preferibile, essere meno agiati e più vicini? La lettera, da leggere e rileggere, resta,  comunque, un segno di presenza.

È abbastanza tradizionale paragonare la Parola di Dio ad una lettera. Gregorio Magno scrivendo a Teodoro – medico, quindi laico, impegnato in una vita che non è direttamente e totalmente dedicata alla Parola come quella del monaco – presenta la Sacra Scrittura come una lettera che Dio ha inviato all’uomo: «Cos’è infatti la Sacra Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla sua creatura? Se ti trovassi lontano e ti raggiungesse una lettera dell’imperatore non ti daresti pace, non chiuderesti occhio senza aver preso conoscenza del contenuto di quella lettera. Or bene, il re del cielo, il Signore degli uomini e degli angeli ti ha scritto una lettera che riguarda la tua vita (”pro vita tua”) e tu, illustrissimo figlio, non ti curi di leggerla con amore ardente? Cerca dunque, ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio».

L’ammonimento è particolarmente per la sua chiusa: «impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio», il che, senza troppo sforzo, può trasformarsi nella sentenza secondo cui il cuore di Dio è consegnato alla sua Parola. Oltre a ciò vi è il paragone, invero un po’ fastidioso,  anche se proposto da Gregorio Magno, tra Dio e l’autorità mondana dell’imperatore. Invero, si tratta di realtà difformi.

   Se qualcuno che ci è molto caro ci scrive, si è solleciti nel leggere e ci si affretta a vedere in quelle parole una presenza: perché non lo si fa con la Parola di Dio? Tra le ragioni vi è anche quella secondo cui il  mittente non è così evidente. Ciò significa che la Parola di Dio è il luogo in cui Dio si nasconde. Dio c’è ma la Parola di Dio non è Dio. Noi non abbiamo mai visto il volto di Dio, mentre abbiamo visto il volto della persona cara che ci invia una lettera. Quando ci giunge il messaggio da chi conosciamo siamo rimandati a un volto che, non solo abbiamo già visto, ma abbiamo e che abbiamo fiducia pure di poter ancora rivedere. Non così per quanto riguarda il Signore il cui volto ci è ancora celato.

Se lo Spirito ha fatto nascere la fede nel nostro animo, gli occhi però cambiano. Se siamo gravidi di Dio, la sua Parola è segno non solo di lontananza, ma anche di presenza: Dio ci manca e nel contempo ci è prossimo. Il contenuto degli scritti biblici è importante, ma ancora più decisivo è che essi siano un segno di Colui che, dopo aver suscitato la fede in noi, si è allontanato senza abbandonarci. La lettera resta, comunque, un indice di una distanza, anche se non di fuga. Lo si deve dire soprattutto oggi che è Pentecoste, il giorno in cui la Scrittura ci attesta una forma di comunicazione più intima e piena di quella derivata dalla lettura della Parola. Di fronte al testo biblico si è sempre obbligati a compiere l’operazione che non ebbe luogo a Pentecoste: tradurre (sia che si tratti, in senso proprio, di passaggio da una lingua all’altra, sia che ci si trovi davanti all’interpretazione).  La presenza senza lontananza per noi è posta, per la massima parte, ancora nell’avvenire. La definitiva Pentecoste avverrà quando Dio sarà tutto in tutti ( 1Cor 15,28). Anche allora, infatti,  ci sarà il miracolo della molteplicità che si sposa con l’unità. Tutto in tutti, non tutti assorbiti nel Tutto.

Piero Stefani

344. Ricevere una lettera (12.06.2011)ultima modifica: 2011-06-11T08:12:00+02:00da piero-stefani
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