345. «Domanderò conto della vita dell’uomo» (19.06.2011)

Il pensiero della settimana 345

 

L’Italia è in guerra, ma ce se ne preoccupa solo per i soldi o per il fatto che alimenti l’arrivo di profughi sulle nostre coste; solo ogni tanto vi è un sussulto di dignità e si pensa a coloro che non giungono perché sprofondati, senza ritorno, in seno alle grandi acque mediterranee. Qui, ancor più che guerra dimenticata, si tratta semplicemente di guerra non percepita come tale. Qualcuno cerca, come il card. Tettamanzi in una sua omelia di qualche tempo fa, di far cadere il velo: è un rapido sbirciare, poi la coltre si riabbassa. Che si uccidano esseri umano sembra importare poco.

Ciò induce a riandare a parole antiche; ben sapendo quanto sia ambivalente e carico di contraddizioni rivolgersi alla Bibbia e al Corano per fondare in modo assoluto il comando di non uccidere. Eppure, dalla storia delle origini e dai loro commenti, qualcosa può ancora giungerci. Resta, per esempio, tuttora carico di significati che il mito che descrive l’inizio dell’umanità contenga in se stesso la vicenda del primo omicidio.

Quando si rimonta all’origine, si è obbligati ad affermare che l’umanità discende tutta o da Caino o da Set. Abele, la prima vittima della violenza dell’uomo sull’uomo non ha eredi, o piuttosto ne ha molti in una trafila inestinta che giunge fino a noi, ma sono vittime che si uguagliano a lui nella sorte, non nella discendenza. Il fatto che Abele (parola che nel suo etimo ha il senso dello svanire, cfr. l’ebraico hevel) non abbia discendenza, suggella la sua condizione di vittima.

L’ermeneutica rabbinica, sempre attenta alle sfumature del testo, non si lascia sfuggire il fatto che, nel versetto in cui si dichiara che il sangue di Abele grida dal suolo, in ebraico si usi la rara forma plurale di «sangui» (Gen 4,10).In un detto posto a conclusione della storia del diluvio, il fatto che il termine «sangue» sia impiegato al singolare svolge un ruolo fondamentale per indicare una comune appartenenza alla vita: «Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» (Gen 9,5). Perché allora con Abele si usa il plurale? La risposta è netta: perché oltre a versare il suo sangue, si è soppresso anche quello di tutta la sua potenziale discendenza (Mishnah Sanhedrin 4,5; Rashi su Gen 4,10).

Nel capitolo quarto della Genesi la parola «fratello» torna sette volte (Gen 4,1-15), vi si ricorre sempre in modo tale da affermare che Caino è fratello di Abele. Vale a dire, non si dichiara mai che la vittima è fratello del suo assassino; al contrario, si asserisce sempre che è l’uccisore a essere fratello di colui di cui ha estinto la vita. La fratellanza è luogo di responsabilità: «domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» (Gen 9,5).

Secondo la Genesi, nessuna parola esce dalla bocca di Abele; in ciò egli è archetipo di ogni vittima. All’ucciso è lasciata come voce solo quella del sangue che grida dall’adamà («suolo») con cui è stato fatto l’adam. A gridare è la voce silente della vita estinta. Nella Genesi, la presa di coscienza da parte di Caino di quanto da lui compiuto, è suscitata dalla voce del Signore che gli giunge da fuori: «che hai fatto? “ […] “troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono”» (Gen 4,10-13). L’episodio è riproposto anche nel Corano, ma lo è in maniera capovolta. Qui Abele parla, mentre la consapevolezza in Caino nasce in virtù del muto (ma ancora una volta capovolto) linguaggio etologico di un corvo che, invece di essere uno spolpatore di cadaveri, diviene il prototipo del becchino, se non proprio di colui che compie un pietoso atto di sepoltura:

 

E recita loro la storia dei due figli di Adamo, secondo verità, quando essi offrirono un sacrificio e quello dell’uno fu accetto e non fu accetto quello dell’altro. E questi disse: «io ti ucciderò!», ma il fratello rispose: «Iddio non accetta che il sacrificio dei pii! – E certo se tu stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stenderò la mano contro di te per ucciderti, perché temo Iddio, il Signore del Creato! Io voglio che tu ti accolli e il mio peccato e il tuo e che tu sia del Fuoco, che è la ricompensa degli oppressori!». E la sua passione lo spinse a uccidere il suo fratello, e lo uccise e fu in perdizione – E Iddio mandò un corvo, che grattò la terra per mostrargli come nascondere la spoglia di suo fratello. Ed egli disse: «O me infelice! Che son stato incapace di essere persino come questo corvo e nasconder la spoglia di mio fratello!». E divenne perseguitato dai rimorsi. E per questo prescrivemmo ai figli Israele che chiunque ucciderà una persona senza che questa ne abbia uccisa un’altra o portato corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l’umanità intera. E chiunque avrà vivificato una sola persona è come se avesse dato vita all’umanità intera» (Corano 5,27-32; trad. it. A. Bausani).

 

«Rivelammo ai figli di Israele». Il Corano evidenzia una priorità che equivale a riconoscere la dimensione universale là custodita. Tuttavia, accanto a questo senso largo, ve ne è uno più specifico e testuale. La frase del Corano trova, infatti, una sua puntuale anticipazione nella Mishnah (codificazione canonica della Legge orale risalente a circa il 200 d. C). Anche qui, partendo da Caino e Abele e al senso di annullamento della posterità connesso al plurale «sangui», si giunge a universalizzare il senso di responsabilità connesso all’uccisione di un solo uomo: «Nel mondo è stato creato un singolo uomo, per insegnarti che se un uomo ha fatto perire una singola vita, la Scrittura lo considera come se avesse fatto perire il mondo intero; e se un uomo salva una singola vita la Scrittura lo considera come se avesse salvato il mondo intero» (Mishnah, Sanhedrin 4,5). Vi è però una variante, ben attestata, che aggiunge una clausola riduttiva; essa specifica: «che se un uomo ha fatto perire una singola vita, in Israele». Sono poche parole in più; tuttavia esse rappresentano un displuvio, infatti, da un lato, il popolo ebraico (come si può implicitamente ricavare anche dal passo coranico) riceve ed elabora nel suo specifico insegnamento di portata universale, mentre, dall’altro, piega alla propria particolarità quanto è chiamato a valere per tutti. Non vi dovrebbero, però, essere dubbi che il non uccidere rientri, di fatto e di diritto, nella seconda opzione.

Piero Stefani

 

345. «Domanderò conto della vita dell’uomo» (19.06.2011)ultima modifica: 2011-06-19T16:07:26+02:00da piero-stefani
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