328. Ironia versus ipocrisia, una battaglia persa

 Il pensiero della settimana, n. 328 

 

L’ironia è una maschera che smaschera; l’ipocrisia è una maschera che si presenta come volto. La prima è critica, la seconda ingannevole. Entrambe non sono ingenue e costruiscono finzioni. L’ironia compie un periplo per evidenziare le storture del mondo reale; di contro l’ipocrisia si impegna a far credere che il velo che avvolge la realtà sia costituito da vetro trasparente. L’inganno ironico è temporaneo e perciò salutare, di contro quello ipocrita tenta di perpetuarsi all’infinito. Chi imbocca quest’ultima via è condannato alla reiterazione; se non erompe qualcosa dall’esterno l’inerzia ipocrita non si esaurisce.

L’ironia è la finzione onesta, mentre l’ipocrisia è ingannevole. La prima si costruisce solo per giungere al punto in cui si autosmonta. Un suo simbolo sono i castelli di sabbia che i bimbi erigono sulle spiagge: li edificano per poi buttarli giù. Questo atto conclusivo gratifica perché è vero. Esso svela l’intima natura di quella struttura, mostra cioè che essa era costruita con un materiale incapace di reggere al tempo. L’atto di demolirla palesa la provvisorietà della costruzione. L’ipocrisia si impegna, invece, a spacciare una casa edificata sulla sabbia come se fosse costruita sulla roccia. Finché questa falsa natura è assunta al suo valore nominale, le cose, in un certo senso, stanno effettivamente così. Fino a quando non è smascherato, l’inganno equivale alla realtà. Per scoprire il gioco occorre che avvenga una denuncia. Essa può essere diretta, severa o indignata, o può vestire i panni, di solito più efficaci, della finzione ironica. L’ironia raggiunge meglio lo scopo a motivo del suo essere, a un tempo, controfigura e avversaria dell’ipocrisia. Nessuno, per esempio, potrebbe gratificare di moralismo una replica ironica. Ipso facto, con ciò viene spuntata l’arma per eccellenza con cui gli ipocriti rispondono ai «profeti».

Per far cadere la maschera bisogna essere convinti che dietro di essa ci sia un volto. Ormai si può, però, dubitare che una faccia ci sia. I castelli di sabbia non si sono improvvisamente consolidati; sono, piuttosto, diventati come una specie di araba fenice: appena distrutti risorgono dalle loro ceneri. La demolizione di essi non porta più a svelarne la fallace consistenza. Il colpo fatale al ruolo pubblico dell’ironia è stato  inferto dai mass-media, vale a dire dall’universo in cui i confini tra finzione e realtà si sono definitivamente confusi. Basti, per esempio, pensare al ruolo assunto nelle nostre società dalla pubblicità. Essa è la vera realtà appunto perché nella pubblicità la finzione precede e produce il reale. Lì si creano i bisogni fittizi ormai annoverati tra gli  autentici motori dell’esistenza.

Nel mondo della comunicazione tutto dipende, in modo diretto o indiretto, dalla pubblicità. In ogni trasmissione, per quanto seria e impegnata sia, il «devo lanciare la pubblicità», detto dal conduttore assurge al ruolo di imperativo categorico. Tutto cessa, ogni cosa deve lasciare il passo a un messaggio che, non di rado, si pone in antitesi con quello proposto dai protagonisti della trasmissione. L’incontestato diritto di precedenza attribuito alla pubblicità, riduce oggettivamente all’insignificanza ogni accorato appello alla serietà e alla responsabilità lanciato pochi istanti prima da politici, intellettuali, maestri spirituali. «L’Italia è in una situazione drammatica, la moralità, la disoccupazione, i giovani, la scuola…» e subito dopo si cede il passo a sofisticati prodotti di lusso, a flessuose figure femminili, ad alimenti ingannevoli che dichiarano  naturale quanto vi è di più manipolato,ecc.

Più devastante della componente diretta descritta nelle righe precedenti è però l’influsso indiretto. Lo stile di comportamento massmediatico-pubblicitario si è interiorizzato ed è diventata la nostra realtà. Di passaggio, è proprio esso a far correre in televisione frotte di intellettuali e di maestri spirituali, i cui libri, del resto, sono spesso pubblicizzati, con pieno assenso degli autori, in modo incompatibile con il loro sedicente messaggio etico o spirituale.

L’ironia ormai non incide più di quanto faccia la denuncia; anch’essa, infatti, è stata assorbita dentro il modello della comunicazione tipico tanto dei mass-media quanto della vita quotidiana pubblica e privata. La satira non punge perché è divenuta parte integrale del castello che vorrebbe sgretolare. Essendo legittimata ovunque, tanto nei mezzi di comunicazione quanto nei suoi oggetti, essa toglie una maschera solo per evidenziare maggiormente quella sottostante. Denuncia e ironia perciò, più che smantellare l’edifico, ne sono diventate strutture portanti. In politica trarre questa conclusione, all’apparenza massimalista, è diventato persino elementare. L’antico litigio si è ricomposto; l’ipocrisia, sorella maggiore, ha assegnato un posto d’onore all’ironia e così l’ha definitivamente normalizzata.

Anche in ciò la Chiesa, in un certo senso, è stata antesignana e maestra. Per coprire le proprie ipocrisie, non c’è stato, forse, nulla di più efficace che proclamare, senza rossore,  le parole evangeliche che bollavano come ipocriti i farisei. Affermando che nei propri testi fondativi sono contenute denunce fortissime contro quell’atteggiamento e caricando sugli altri l’accusa di ipocrisia,  si è potuto procedere senza, in sostanza, dar mai ragione della propria. Anche qui in fondo si è trattato di comunicazione. Ora il discorso è diventato ancor più agevole. Il papa, per esempio, dalla finestra di un luogo in cui si raccolgono i massimi tesori della terra, può proclamare, all’Angelus, che la Chiesa non ha paura della povertà, e la notizia viene proposta dai media come se fosse un alto magistero morale. Nella constatazione appena esposta vi è un guizzo ironico, ma esso non basta a incidere. D’altra parte ipocrisia e ironia si sono da tempo confuse in una Chiesa che, prima perseguita le voci critiche e poi, dopo anni o secoli, le beatifica. Si tratta di denuncia antica (cfr.  Mt 23,29-30).

Cosa resta? Rimangono i luoghi in cui la struttura dell’apparenza cade. Il più immediato è quello della sofferenza patita, in prima persona, nell’animo e nel corpo. C’è però anche altro; in questo secondo ambito primeggia la relazione buona e fedele tra gli esseri umani di cui l’autentica amicizia è cifra piena. Tornano alla mente i versi scritti da David Maria Turoldo per i settant’anni di Benedetto Calati: «Nel denso smarrimento, che almeno /sopravviva la nostra amicizia: / questo evento salvatore di essere / amici in tanto deserto…».

Piero Stefani

 

 

328. Ironia versus ipocrisia, una battaglia persaultima modifica: 2011-02-19T05:00:00+01:00da piero-stefani
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