302 – La parola data (seconda e penultima parte) (11.07.2010)

Il pensiero della settimana n. 302

  

Per la Bibbia l’unico vero giuramento, stabile per sempre è quello di Jhwh , vale a dire un atto imparagonabile a quello accessibile all’uomo in quanto compiuto in nome di se stessi. Perciò i giuramenti umani – che pure  è lecito formulare e che, una volta espressi, vanno scrupolosamente osservati appunto perché coinvolgono il nome del Signore – rappresentano per la Scrittura una specie di concessione a quanto, altrove,  è definita «durezza del cuore (sklerokardia)» (cfr  Mt  19,18; Mc  10,5).

L’atto di giurare  è una circostanza in cui ci si richiama al Signore proprio perché non ci si è conforma fino in fondo al suo modo di operare; ci si appella al suo Nome e non al proprio, ma, così facendo, si percorre una via opposta a quella sulla quale ha deciso di camminare Jhwh. La meno inadeguata  imitatio Dei accessibile alla persona umana sta, quindi, nell’astenersi dal giurare. Nei libri sapienziali questa cautela era stata avanzata soprattutto nella prospettiva di non incorrere in peccato: è sempre meglio non esporsi a eventuali pericoli. «Non abituare la bocca al giuramento, non abituarti a proferire il nome del Santo. Infatti come un servo interrogato accuratamente  non mancherà di prendere delle lividure, così chi giura e pronuncia il Nome di continuo di certo non sarà esonerato dal peccato» (Sir  23,9-11). Qui non ci si trova di fronte ad alcun consapevole spergiuro. Non si ha, fin dall’inizio, l’intenzione di non mantenere la parola data. Per ricorrere a termini comuni, si potrebbe dichiarare che ci si limita a giurare «alla leggera» e per cose di poco conto; esse però, alla fine, pesano come macigni, visto che si chiama il causa il Nome. Umanamente parlando, c’è forse qualcuno che può dichiarasi davvero all’altezza di mantenere tutto quanto promette, specie  se lo fa con inopinata frequenza?

Nel Siracide il riferimento al Nome si presenta come un’allusione implicita al comando che  impone di non nominare invano il nome di Jhwh invano (Es 20,7; Dt    5, 11). Il comandamento del Decalogo non si riferisce a giurare il falso. Questo divieto lo si trova, esplicitamente, altrove (Lv 19,12). L’avverbio invano (la-shawe’, alla lettera «a vuoto»), non ha a che fare in modo diretto con la falsità e tanto meno con l’insulto (bestemmia). Come sottolinea con insistenza la tradizione rabbinica, esso si riferisce piuttosto alla inutilità e fatuità di chiamare in causa il nome del Signore per garantire qualcosa per la quale non c’è affatto bisogno di appellarsi a questo supremo sigillo di garanzia. In quest’ambito assistiamo, ancora una volta, a un paradosso: da un lato abbiamo un oggetto lieve per cui non bisognerebbe scomodare Dio, dall’altro la responsabilità diviene massima, una volta, infatti, che si fa ricorso in modo inopportuno al nome del Signore, volenti o nolenti, lo si coinvolge e quindi si ci si espone alla punizione. Così facendo si costringe il Signore, il cui Nome è simbolo massimo di misericordia, a diventare capace di punire.

Il dramma legato al capovolgimento, compiutosi per via di banalizzazione, del rapporto umano con Dio legato al giuramento è stato ben colto dall’ermeneutica rabbinica. In riferimento al passaggio in cui si collega il nome di Jhwh al fatto che Egli si  presenta come «tuo Dio» (Es 20,7), il Midrash afferma: «Fino a tanto che non ti sei impegnato a giurare, io per te sono Dio, ma dal momento che ti sei impegnato, io per te sono un giudice, come sta scritto: “perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano”» (Mekhiltà de Rabbi Ishmael a Es 20, 7). Se si evidenziano le potenzialità insite in quest’interpretazione, ci si trova ben oltre l’affermazione, piuttosto banale, secondo cui Dio punisce chi pecca abusando del nome di Jhwh. Il senso del comandamento è più profondo: tirare in campo Dio «a vuoto» comporta stravolgere la relazione che esiste tra il Signore e il suo fedele. Significa, cioè, costringerlo a mostrare un volto punitivo che è l’esatto opposto di quello espresso dalla rivelazione misericordiosa del Nome.

La prossimità a Dio si ha solo nell’assunzione consapevole della distanza. Per imitare sulla terra il Padre che è nei cieli, occorre percorrere una via contrassegnata dalla differenza. Per agire in modo simile al Signore, bisogna riconoscersi infinitamente differenti rispetto a lui. Non è, quindi, secondo il suo cuore chiamarlo sempre in causa in modo diretto. Nel profeta Osea vi sono alcuni passi che rendono esplicito cosa significa non conoscere Dio. Essi, per così dire, si collocano su un asse verticale rispetto al contenzioso aperto dal Signore, ma si situano su un piano orizzontale nei confronti della responsabilità: «Ascoltate le parole del Signore (Jhwh) figli d’Israele, perché c’è una contesa (riv) tra il Signore (Jhwh) e gli abitanti della terra [d’Israele], perché non c’è sincera fedeltà (’emet), non c’è pietas (chesed), non c’è conoscenza di Dio nella terra, si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba si commette adulterio…» (Os 4,1-2). La non conoscenza di Dio coincide con la violazione di comandamenti incentrati su relazioni interumane (gli stessi che si trovano nel Decalogo). Non si conosce Dio perché si dice il falso, si uccide, si ruba, si è adulteri e non perché non si prega o non si fanno sacrifici. Proprio in Osea si trovano, del resto, le parole riprese da Matteo secondo cui il Signore vuole chesed e non  già sacrifici «la conoscenza di Dio più che gli olocausti» (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7). La struttura della frase  è simmetrica; trascritta in modo affermativo, essa comporta che, per conoscere Dio, ci è chiesto di mettere in pratica lo chesed (pietas, misericordia) interumano. Vi sono circostanze in cui, per essere secondo quanto Dio chiede al suo fedele, bisogna avvolgere nel silenzio il nome del Signore. Una fra esse è l’astenersi dal giurare. Per esprimerci in termini contemporanei, colto nella sua virtualità più propria, il comandamento che vieta di pronunciare a vuoto il nome del Signore è un modo per estendere il senso  della «laicità».

Piero Stefani

302 – La parola data (seconda e penultima parte) (11.07.2010)ultima modifica: 2010-07-10T05:26:00+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “302 – La parola data (seconda e penultima parte) (11.07.2010)

  1. Di questi tempi più facile, efficace e meno rischioso è appellarsi all’infallibile quanto opportunamete mutevole “scienza”, un costrutto le cui radici bibliche sono peraltro esplicitate nello “Scholium Generale” ai Principia. Come scrive Vattimo, “l’ oggettivismo metafisico, oggi declinato come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata del dominio di classi, gruppi, individui”. Il potere di garantire la verità passa da JHWH a patetici esperti a cottimo. Plus ça change, plus c’est la même chose.

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