301 – La parola data (parte I) (04.07.2010)

Il pensiero della settimana, n. 301

  

L’atto di giurare è ben conosciuto nella Bibbia; per quanto più nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Due sono i modi correnti di riferirsi al giurare (e quindi di riflesso allo spergiurare): l’uno è di garantire la propria parola rispetto a una testimonianza collegata a quanto è avvenuto in passato; l’altro è connesso a una promessa e quindi impegna verso l’avvenire. Il primo caso – che per noi evoca immancabilmente i tribunali – è praticamente sconosciuto nella Bibbia, lo si può trovare, come peccato,  in Pietro che giura di non aver conosciuto Gesù (Mt 26,72) e forse, con meno certezza, in altri pochi passi (Es 22,10; Lv 5,22.24). La dimensione del giuramento che riguarda l’avvenire è invece  frequente. Per rinvangare vecchi espedienti mnemotecnici della scuola di un tempo, anche per la Scrittura si potrebbe affermare che «spero, promitto e iuro reggono l’infinito futuro».

Giurare è considerato un atto lecito, ma non è un comportamento comandato da Dio. Non è mai attestata una forma in cui il Signore prescrive a qualcuno di fare giuramento. Non c’è un precetto che impone di giurare; esiste solo quello che vieta di spergiurare (Lv 19,12). O meglio, la sfera del giuramento si presenta a volte come una specie di prolungamento implicito del comandamento di temere e amare il Signore; essa cioè è espressione di fedeltà che corrisponde simmetricamente all’impegno assunto dal Signore rispetto alle sue promesse. In particolare nel Deuteronomio «giurare in nome di Jhwh» è correlato con «temerlo, servirlo, aderire a lui» (Dt 6,13; 10,20).

In effetti, rispetto al giuramento, l’originalità dell’atteggiamento biblico nei confronti delle culture circostanti non sta tanto nel  fatto (scontato) che si possa giurare solo nel nome di Jhwh e non in quello di altri dei, quanto nel constatare che molte volte (per la precisione 75 nella Bibbia ebraica) si afferma che il Signore stesso si impegna con un giuramento, senza che a ciò corrisponda  una  richiesta all’uomo di fare altrettanto. Nella antiche culture confinanti con Israele gli dei erano, invece, solo testimoni e vendicatori rispetto a un impegno non mantenuto. Nella Bibbia, di contro, è il Signore stesso a giurare di adempiere le proprie promesse. In particolare l’oggetto del giuramento divino è, di frequente, la terra promessa ai patriarchi (cfr. Gen 12, 7; 15,18; 17,8; 26,3) e data in eredità alla generazione successiva a quella uscita dall’Egitto. Il riferimento fa comprendere meglio cosa significano i passi in cui si ammonisce Israele con parole di questo tipo: una volta entrato nella terra che il Signore aveva giurato di dare ai padri (Abramo, Isacco e Giacobbe), il popolo si sarebbe dovuto ben guardare dal dimenticare Jhwh che lo ha liberato dalla schiavitù, anzi avrebbe dovuto temerlo, servirlo e giurare per il suo nome (cfr. Dt 6,10-13). Il giuramento si colloca nell’ambito della memoria viva del Dio liberatore: per questo nessun altro nome è accostabile a quello del Signore. Un tema tipico del Deuteronomio (ma non solo di esso) sta nell’affermare che quando si è nel benessere bisogna proseguire a far memoria del Signore che con il suo agire ha  reso possibile la attuale condizione nella quale è dato di godere dei beni della terra. Non è concesso di appiattirsi sul «qui e ora»: il ricordo del liberatore implica un impegno di fedeltà nei confronti del Signore aperto in direzione del domani.

Se Jhwh stesso giura, in nome di chi può farlo? La domanda è posta dalla stessa Scrittura e la risposta è obbligata: Dio può giurare solo in nome di se stesso. La più articolata – e un poco ridondante –  argomentazione in proposito la si trova in un passo neotestamentario:  «Quando […] Dio fece la promessa ad Abramo non potendo giurare per uno superiore a sé, giurò per se stesso dicendo: “Ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza” (Gen 22,6) […] Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento, affinché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta» (Eb 6,13-18).

Il Signore che giura per se stesso a un tempo esalta e relativizza  l’atto del giurare. Da un lato l’immagine appare un antropomorfismo, espresso a volte persino con l’idea che Dio alzi la mano per attribuire una garanzia gestuale alla sua promessa (cfr. Dt  32,40, Ez 20, 5), dall’altro si dichiara che il Signore compie un atto che l’uomo può effettuare solo chiamando in causa Dio e quindi mai in nome proprio. Jhwh  presentato nell’atto di giurare  è raffigurato in un modo che  a un tempo lo avvicina e lo distanzia infinitamente dalle proprie creature. Giurando, Egli si impegna verso i propri figli  e si sottopone perciò al tempo e, se così si potesse dire, si espone alla verifica se, nell’ordine dei fatti, mantenga o meno quanto promesso. Colta sotto questa luce, la sua fedeltà è conforme ai parametri propri dell’uomo. Eppure il Signore compie tutto ciò  in un modo radicalmente precluso a ogni essere umano. Quando giuriamo, impegniamo  noi stessi, ma lo facciamo coinvolgendo un nome che è altro da noi; è  gioco forza che nessun uomo possa giurare in nome proprio. Nessuno di noi è colui che, per definizione, mantiene per sempre le proprie promesse. Non è perciò assurdo pensare che la proibizione del giuramento, che affiora in certi brani neotestamentari, sia potuta nascere solo nell’ambito di una tradizione che attribuisce l’atto di giurare al Signore stesso.

Piero Stefani

301 – La parola data (parte I) (04.07.2010)ultima modifica: 2010-07-03T09:20:00+02:00da piero-stefani
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