300 – Alle fronde dei salici (27.06.2010)

Il pensiero della settimana n. 300

Le riscritture sono un destino di una cultura sviluppatasi per accumulo. Quando il terreno vergine è perduto da millenni, i richiami, i riferimenti, le allusioni, le citazioni esplicite o dissimulate  formano ordito e trama  della produzione letteraria. Aspirare alla spontaneità è allora illusione: è gioco forza che si sia costretti a ri-scrivere. Bisogna però saperlo fare. Una condizione necessaria per adempiere il compito è essere consapevoli di variare rispetto al sottotesto. L’esito è perciò felice allorché un capovolgimento consente di ribaltare, senza tradirla, la cifra complessiva in cui  era, di norma, recepito il testo di partenza.

Super flumina Babylonis  (Sal 137 [136]) è da sempre considerato un lamento situato in terra d’esilio. Il Salmo è costruito sulla distanza che vi è tra i fiumi babilonesi e i canti legati alla lontana Sion. Questo senso è espresso anche dalla sua riscrittura  più popolare  (e al giorno d’oggi più ideologizzata): il Va pensiero del verdiano Nabucco. Nella ricezione risorgimentale il coro però divenne, ben presto,  contraddistinto da un rovesciamento che – unito alla straordinaria qualità della musica di Verdi –  ne garantì la perenne popolarità. Il senso della lontananza spaziale dalla patria perduta si trasformò, infatti, nell’espressione di mancanza di indipendenza tipica di chi viveva, non libero, sul proprio suolo. Inutile sottolineare che questo retaggio interpretativo (sia pure attraverso un ulteriore ricapovolgimento) non è estraneo all’odierno uso «padano» del coro/inno.

In modo più drammatico, lo stesso rovesciamento si trova alla base della più incisiva riscrittura poetica del Salmo presente nella letteratura italiana del Novecento Alla fronde dei salici[1]  composta da Salvatore Quasimodo nel 1945.

 

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

 

Il capovolgimento, che fornisce la cifra interpretativa di fondo alla poesia (non a caso fu scelto come titolo per la prima, incompleta, raccolta edita nel 1946), è contenuto  nell’endecasillabo che parla del «piede straniero sopra il cuore». Nel testo sono scomparsi la terra estranea e i suoi fiumi; in esso è svanita la componente beffarda di dominatori che invitano a cantare parole legate alla lontana Sion. Ora l’oppressione viene impressa, ancor più che espressa, con l’immagine di un piede schiacciante posto sopra il cuore. Oltre a essere stranieri  a «casa propria», si  è ormai gravati dentro. Ciò avviene non a causa di qualche intima angoscia, bensì a motivo di quel che sta avvenendo nel mondo.

 L’orrore  fa sì che il poeta faccia esodo da se stesso. Nel 1957, in un testo intitolato Poesia del dopoguerra, Quasimodo scrisse: «Il poeta s’è trovato improvvisamente gettato fuori dalla sua storia interna: in guerra la sua intelligenza particolare aveva lo stesso valore di quella proletaria e collettiva che sapeva sì e no contare i pesci del miracolo cristiano. Il problema del “perché” della vita s’era trasformato nel “come” si vive, o se vogliamo in quello del “perché” si vive in un dato modo anziché in un altro che non coltivi continuamente la morte quale protagonista della consolazione illimitata».[2]

In conformità con il Salmo (ma a differenza del Va pensiero),  Alle fronde dei salici non è scritta al presente. Non dice contraddittoriamente il mutismo;  non si conforma al caustico «un bel tacer non fu mai scritto». Al contrario, la poesia descrive un immediato passato. Il poeta si trova quasi sulla soglia: non può riprendere a cantare senza dire la recente impossibilità di farlo. Il voto non è più vincolante, ma non è dimenticato; perciò gli avvenimenti che hanno indotto a formularlo, ora sono gli stessi che inducono a ricordarlo; ciò rende possibile  riprendere il canto senza violare la promessa.

Il sentire di Quasimodo è plasmato da un sottofondo cristiano. Al centro della poesia c’è la bocca spalancata della madre  («urlo nero») che vede la creatura delle proprie viscere appesa a una moderna croce («palo del telegrafo»). Le va incontro senza poterla raggiungere. In quella morte non c’è riconciliazione; né dal patibolo il figlio è in grado – come invece avviene nel IV Vangelo (Gv 19,25-27) – di rivolgere alcuna parola alla madre. Il materno urlo scuro è il suono inarticolato dell’antipoesia; mentre riempie l’aria, il canto è obbligato a tacere. Durante la guerra le cetre, come quelle degli antichi deportati («anche le nostre…»), stavano appese silenti alle fronde dei salici. Il vento che le faceva oscillare era triste; tuttavia esse restavano lievi. Nei due versi conclusivi si evoca una sospensione spaziale per alludere a una temporale. Il mutismo non è per sempre. Il silenzio della poesia non è definitivo;  quando al canto fosse stato dato di riprendere voce, esso sarebbe stato obbligato a dire innanzitutto il suo trascorso ammutolimento.  Nessun’altra poesia se non Alle fronde dei salici avrebbe potuto stare all’inizio della raccolta.

Piero Stefani




[1] La poesia apre la raccolta  Giorno dopo giorno pubblicata nel 1947. L’anno precedente era già  stata edita in una raccolta più  breve intitolata:  Con il piede straniero sopra il cuore.

[2] I premi Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo (1959),  Fratelli Fabbri, Milano 1968, p .114.

300 – Alle fronde dei salici (27.06.2010)ultima modifica: 2010-06-26T08:07:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo