285 – Un dramma antico (07.03.2010)

Il pensiero della settimana, n. 285 

 

Nella esistenza di molti ci sono alcuni passi di libri che, pur  letti decenni orsono, continuano a essere presenti nella memoria. Di solito non lo fanno alla maniera di un cartello pubblicitario che ci sta aperto con prepotenza di fronte. Sono piuttosto fiumi carsici che si immergono a lungo nel preconscio per rispuntare fuori al momento opportuno. In certe circostanze, però, gli eventi sono tali che il modo in cui si presenta il passo è paragonabile al Po di questi ultimi tempi, ferito e umiliato da un’immensa massa bituminosa.

«Quando ero giovane, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne che questo capitasse allora in città: il governo attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun cittadini divennero reggitori dello stato. Undici furono posti al capo del centro urbano, dieci a capo del Pireo, tutti con l’incarico di sovrintendere il mercato e di occuparsi dell’amministrazione e, sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi invitarono a prender parte alla vita pubblica, come un’attività degna di me. Io credevo veramente (e non c’è niente di strano, giovane com’ero) che avrebbero purificata la città dall’ingiustizia traendola a un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto. M’accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente […] Io allora, vedendo tutto questo, e ancor altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. Anche allora in quello sconvolgimento accaddero molte cose di cui affliggersi, com’ è naturale,  ma non c’è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero maggiori. Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato e lo uccisero […] Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava difficile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d’altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era anche trovarne di nuovi con facilità. Le leggi  e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché  io, che un tempo desideravo moltissimo partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, sì, a osservare se vi potesse essere un miglioramento, e soprattutto se si potesse migliorare il governo dello stato, ma per agire aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e lodare solo essa» (Platone, Settima lettera, 323b-326a).

Platone giunse alla filosofia spinto dalla delusione politica e praticò la filosofia in vista del risanamento della politica. In lui non vi fu nulla di qualunquistico e tanto meno nulla di simile all’interessata denuncia degli autori della Casta. In Platone  vi fu l’angoscia di vedere la vita pubblica governata in base all’interesse di parte. Storia antica, cronaca attuale. Per patirla davvero bisogna avere nel cuore l’assillo della cosa pubblica, ma quando tutto si ammala il cuore stesso non può fare eccezione.

Cadute le ideologie e ideologizzatesi le appartenenze,  la gente ha un gran bisogno di identità. Lo soddisfa da molte parti, ma quasi mai in politica dove gli ex partiti sono orami diventati poco  più che litigiosi «comitati di affari». Fa eccezione la Lega, l’unico raggruppamento politico in grado di soddisfare un pericolosissimo bisogno di identità, l’unico partito ancora radicato nel territorio e non solo nei consigli di amministrazione. Prospettarlo come nostro futuro è assai peggio che pensare all’Atene dei Trenta tiranni.

Piero Stefani

285 – Un dramma antico (07.03.2010)ultima modifica: 2010-03-06T17:19:00+01:00da piero-stefani
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