284 – Il canto incontro tra generazioni[1](28.02.2010)

Il pensiero della settimana n. 284

 

 Vi sono dei cori in cui cantano assieme adulti e bambini. È un’esperienza su cui vale la pena riflettere. Ben rari sono infatti gli ambiti in cui bimbi e persone più mature fanno e apprendono qualcosa assieme. Si tratta di circostanze in cui chi insegna deve assumere un linguaggio comprensibile ai primi perché anche i secondi imparino. È abbastanza frequente che gli adulti imparino insegnando, meno che si co-apprenda e  si con-faccia. In ogni caso si tratta (almeno nei cori amatoriali) di un’attività che, al pari del gioco, si fa come fine a se stessa. Essa esula dal campo dell’utile,  eppure tutti devono ugualmente tendere a uno stesso scopo.

Il coro è chiamato a riunire in un’unità armoniosa quanto è diverso. La sua forma classica, certo non l’unica, è di essere composto da quattro voci.  In essa il femminile si unisce al maschile. Oppure, quando  le voci acute sono affidate ai fanciulli, il coro unisce generazioni diverse. L’arte qui intreccia la natura. La sua «naturalità» distingue  il coro da un’orchestra nella quale i sessi e le generazioni si possono, di sicuro, incontrare sotto la guida di un maestro; va detto però che l’artificialità degli strumenti fa sì che ciascuno di essi possa essere suonato indifferentemente da un giovane  o da un anziano, da un maschio o da una femmina. Nel coro non è così.

Il coro è davvero l’unità del molteplice o non è più giusto chiamarlo il diversificarsi dell’uno? Se si guarda al modo in cui il coro si forma, adunando assieme varie persone, l’alternativa sembra essere per forza la prima; non così se ci si rivolge al risultato. Rispetto all’esito si parla sempre di un (solo) coro a più voci e di musica (al singolare) polifonica.  Il sigillo della diversità viene mantenuto: l’esito perfetto si ha quando le voci si fondono senza mescolarsi; in altre parole, le voci si uniscono in virtù di una distinzione tenuta in massima evidenza.

Il coro non è neppure una squadra. Non lo è vuoi per la mancanza di agonismo e competitività tipica del confronto diretto di un gruppo contro l’altro, vuoi perché  nel coro non si possono dare voti ai singoli che operano al servizio dell’insieme. Ci sono ruoli, ma non individualità. Quando tutto funziona per il meglio, agli orecchi dell’ascoltatore il più bravo e il meno bravo divengono indistinguibili. Quanto conta è l’insieme.

Il coro indica che, anche al di fuori della musica, gli incontri più veri si danno allorché ci si trova a perseguire uno scopo comune e quando, lungo questo itinerario, ognuno fornisce un apporto che non può essere sostituito da quello di nessun altro.  I legami più saldi si creano quando si lavora assieme senza personalismi o, peggio, rivalità. Nel canto corale quando emergono personalità narcisiste lo stridore la vince sull’armonia. Perché  questo pericolo sia scongiurato, ci deve essere una persona che assuma la responsabilità della guida. Tuttavia il maestro da solo non può far nulla né, nel corso dell’esecuzione, partecipa in modo diretto all’emissione del canto. Per lui (o per lei) vale l’immagine di essere fermento catalitico: è indispensabile perché la reazione avvenga, ma non vi partecipa. In questa luce è giusto dire che il maestro è al servizio della musica. In lui il rischio del personalismo c’è ma se egli  non resiste alla tentazione il risultato è modesto.

Altra cosa è parlare di interpretazione. Essa fa rivivere quanto da solo non ha ali per spiccare il volo della comunicazione. Il maestro dà la propria impronta all’esecuzione. Perché ciò avvenga in modo proprio, la scelta va calibrata sull’oggetto e non su se stessi. Per farlo bisogna essere consapevoli che la linea seguita, pur essendo per noi la migliore, non  è nelle condizioni di negare l’esistenza di altre scelte. L’immagine polifonica vale anche per l’insieme delle interpretazioni.

Chi apprende deve essere recettivo, ma anche responsabile. Per lui è obbligo sapere in proprio quanto sta facendo: l’emissione della voce è, per definizione, compiuta in prima persona. Non solo: quando si canta occorre prestare attenzione a quel che  attua il proprio vicino. L’ascolto reciproco è regola aurea. In questo contesto vale sia la dipendenza l’uno dall’altro, sia il difficile compito di farsi carico e di correggere l’errore altrui. Se compaiono le rivalità, se esistono i primi della classe l’esito è mediocre. I più bravi possono eccellere nel loro contributo alla causa comune soltanto se si fanno carico dei meno validi. In un’epoca di competitività esasperata, il coro indica un’altra via: quella della solidarietà responsabile. L’immagine della squadra (di solito caratterizzata dalla presenza di un padrone) ai nostri giorni è divenuta imperante anche in politica. Riuscire a fare un gioco di squadra sembra già il massimo. In effetti la metafora corrisponde allo spirito del nostri giorni più di quella del coro. Sul piano dei simboli, nell’Italia dell’inizio del XXI secolo cantare assieme è divenuta una forma di resistenza.

Piero Stefani




[1] Trascrivo , con altro linguaggio, alcune idee espresse in una conversazione tenuta presso la parrocchia di S. Giovanni a Lecco il 21 febbraio scorso.

284 – Il canto incontro tra generazioni[1](28.02.2010)ultima modifica: 2010-02-27T14:56:00+01:00da piero-stefani
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