281 – La monumentalizzazione della memoria (07.02.2010)

 Il Pensiero della settimana n.281

Dopo ogni celebrazione del giorno della memoria si discute sulle modalità del suo svolgimento e  sulla sua efficacia. Il giudizio generale non è confortante; tuttavia, date  la costellazione  e la varietà delle iniziative, le valutazioni sono articolate e difficili da riassumere. 

Prendiamo un aspetto: il treno della memoria. Vale a dire il viaggio ad Auschwitz, ormai diffuso in molte scuole europee: ogni anno quel lager conta un milione e mezzo di visitatori, tra essi gli studenti sono una percentuale significativa. Se ne discute e se ne scrive (cfr. Stefania Consenti, Binario 21. Un treno per Auschwitz, Edizioni Paoline, Milano 2010). Se ne svelano a poco a poco le ambiguità, legate in massima parte al prevalere del versante emotivo. Si trascurano però alcuni fattori di lungo periodo, senza i quali difficilmente la vicenda avrebbe preso questo andamento. Tali riferimenti non servono a spiegare tutto, restano però necessari per tratteggiare lo sfondo.

La monumentalizzazione dell’orrore è uno dei retaggi storici del Novecento, frutto postumo del grande macello della prima guerra mondiale. Sacrari e monumenti ai caduti hanno cosparso l’intera Europa e sono divenuti luoghi deputati della religione civile dei vari stati. La visita all’altare della patria e al sacello del milite ignoto fa ancora parte del protocollo ufficiale. La funzione pubblica della morte – palese secolarizzazione del pellegrinaggio cristiano alle tombe dei martiri – segna una continuità tra Weimar, Hitler e le democrazie del secondo dopoguerra. La voce di implacabile denuncia dell’uso pubblico della morte espressa da Elias Canetti resta inascoltata. Il grande scrittore riporta e chiosa il punto estremo e rivelatore  contenuto nelle parole di Hitler, riferite da Speer, relative all’arco di trionfo (doppio di quello di Napoleone) che il Führer voleva far costruire a Berlino: «Sarà almeno un degno monumento dei nostri morti nella guerra mondiale. Il nome di ciascuno dei nostri 1.800.000 caduti sarà scolpito nel granito» (E. Canetti, Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano 1974, p. 94). Lo sterminato numero dei nomi dei caduti consente di erigere un arco di trionfo per una guerra persa.

Secondo il progetto di Luca Zevi il futuro museo della Shoah di Villa Torlonia (Roma) si presenterà come «Un parallelepipedo nero e lucido, con un’enorme facciata liscia incisa dai nomi degli ebrei italiani deportati nei campi di concentramento dai nazisti». Non è la stessa cosa, va da sé, ma non sono neppure realtà del tutto antitetiche.

In particolare, in riferimento all’ebraismo, va preso in considerazione l’indebolimento del ruolo affidato a   una memoria  che non aveva alcuna necessità di luoghi e quindi neppure di monumenti. Ciò avveniva anche, e  forse soprattutto, perché  essa non era incentrata sui morti. Si pensi a tutta la cena  pasquale ebraica in cui,  di generazione in generazione, ognuno, senza far un passo fuori da casa propria, deve considerare se stesso come se fosse personalmente uscito dall’Egitto. Lo stesso vale per il Sinai (sono stati i cristiani e non gli ebrei a contraddistinguerlo con  una presenza, il monastero di Santa Caterina). Se quotidianamente si ricorda la Torah di Mosè dal Sinai non c’è bisogno di andarvi (e tanto meno di discutere quale sia il vero monte).

Ora invece, a causa del sionismo, anche gli ebrei hanno bisogno di luoghi. Ormai l’eroica Masada – luogo di morte e di gloriosa sconfitta  nella guerra contro Roma – fa parte integrante sia della formazione civile israeliana sia del turismo internazionale. Lo  Yad wa-shem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, non può essere ridotto alla monumentalizzazione della morte; eppure il suo uso non sfugge a questa componente. Tutti i capi di stato o di governo in visita in Italia devono deporre la corona di alloro all’altare della patria; mentre se essi vanno in Israele è obbligo per loro visitare lo Yad wa-shem (con il compito aggiuntivo di scrivere sul registro una frase memorabile:  «La nostra anima urla “Non è vero, non può essere vero” e poi, sconfitta, grida “Mai più”. Con commozione profonda Silvio Berlusconi»). Lo stesso vale se l’uomo di governo visita la Polonia e si trova nei pressi di Auschwitz.

La forma di retorica pubblica a cui si è fin qui alluso spiega perché  per gli uomini politici italiani – di qualunque orientamento – crei assai più problemi visitare Fossoli che Auschwitz o lo Yad wa-shem. Lungi dall’essere monumentalizzato, nell’immediato dopoguerra il campo di detenzione e smistamento (e non di morte) posto nei pressi di Carpi – da cui passarono tanti deportati italiani (ebrei e non ebrei) – fu riutilizzato tanto dai rifugiati dalmati e istriani quanto dai ragazzi di don Zeno Saltini. Ora non è più così, ma visitarlo per un politico – in particolare di destra – implicherebbe aprire il discorso su precise e inconfutabili responsabilità italiane nella deportazione, il che gli precluderebbe di pareggiare ogni discorso all’ombra dei morti.

Piero Stefani

 

281 – La monumentalizzazione della memoria (07.02.2010)ultima modifica: 2010-02-06T11:00:00+01:00da piero-stefani
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