Il Pensiero della settimana n.280
Il libro di Gad Lerner (Scintille, Feltrinelli, Milano 2009) inizia con una pagina che, lo si comprende a prima vista, è stata scritta da ultimo. Non è una prefazione, né una nota di ringraziamento: è un giustificazione per le molte pagine, schiette fino all’eccesso, dedicate al padre, e in subordine alla madre, presenti nel libro. Il richiamo alla parola antica è un’apologia che vuole indicare come la conflittualità possa tramutarsi in una forma di rispetto tanto nei confronti di se stessi quanto di coloro che ci hanno dato la vita. Per far questo ci si appella ai Dieci comandamenti.
Nella sua versione originale, il comandamento di onorare padre e madre fa ricorso all’imperativo kabbed (Es 20,12). Lerner, giustamente, richiama l’etimo che conserva in sé l’idea di peso. In questa lettura lo scopo del comandamento va inteso come la capacità di dare il «giusto peso» ai genitori. Si tratta di un atteggiamento adulto che consente un ritorno solo dopo che è avvenuto un distacco; il libro simboleggia tutto ciò attraverso il comando biblico rivolto ad Abramo di uscire dalla propria terra, dal proprio parentado e dalla casa di suo padre (Gen 12,1). Non si tratta perciò di un atto paragonabile al ritorno penitente del «figliol prodigo». Al contrario, è solo la legittimazione di una distanza a consentire che avvenga un incontro privo di lacrime ed abbracci.
Nella versione originaria delle «Dieci parole» il significato del precetto – come Lerner ben sa – non è quello di dare il «giusto peso» ai genitori, espressione in cui l’aggettivo è chiamato a ridefinire tutto il contenuto del comandamento. Non v’è dubbio che l’etimo sia apparentato con il significato di pesantezza. Tuttavia nella formulazione del precetto ciò avviene perché a questa stessa area semantica è collegata l’idea di «gloria» (kavod), in ebraico connessa non allo splendore, bensì alla maestà solenne: kavod Adonai «gloria del Signore», è espressione frequente nella Bibbia. Ciò non significa che le «Dieci parole» prospettino una specie di culto idolatrico rivolto ai genitori. A essere posto in rilievo con questo verbo è infatti eminentemente il ruolo riservato all’origine.
Nella selva di proibizioni introdotte dal «non» proprie dei Dieci comandamenti, spiccano due soli precetti affermativi: quello che riguarda il sabato di Dio e dell’uomo e quello che concerne il padre e la madre. Il primo è introdotto dall’imperativo «ricorda» (zakhor, Es 20,8; in Dt 5,12 c’è per «osserva» – shamor ), secondo da «onorare». Quanto apparenta i due ambiti è presto detto: il riconoscersi creatura. La propria esistenza non è dovuta a se stessi, ma a Dio e ai genitori. Tra il Signore e i genitori la distanza è infinita: padre e madre sono stati a loro volta figli, vale a dire sono anch’essi creature. Nel precetto non vi è nulla di naturalistico. A differenza di Dio, i genitori invecchiano e muoiono. È solo la parola imperativa a dirci che nella nostra vita ne va di Dio e che questa sua presenza passa anche attraverso i genitori. Inutile nascondere che in antico affermare la pregnanza di questo collegamento era assai più agevole di quanto non lo sia oggi.
Avvilito in una prassi catechetica che lo ha reso poco più che una raccomandazione ai bimbi di obbedire ai genitori, il comandamento di onorare padre e madre riacquista uno spessore diverso in una società che, dopo una frequente conflittualità, vede, in maniera dilagante, irrompere davanti ai figli la prolungata vecchiaia e l’assistito deperimento di coloro che ci hanno dato la vita. Giovanni Pascoli scrisse versi che non pochi hanno sentito prossimi: «Io devo dirti cosa da molti anni/ chiusa dentro. E non piangere. / La vita / che tu mi desti – o madre, tu! – non l’amo» (Colloquio). La scelta di dirlo simbolicamente di fronte alla madre rende «colloqui» il conflitto con se stessi. Nei nostri giorni si è aggiunto dell’altro. Oggi più che mai una delle tentazioni che rendono difficile amare la vita è il «come ci si riduce» di cui i vecchi genitori sono sempre più spesso involontario specchio. Onorarli, per il credente, significa vedere in quella debolezza un’immagine di Dio. Per la fede la gloria divina sta non più nel peso, ma nell’umiltà. È nostro destino ormai che l’imperativo rivolto nei confronti di coloro che ci hanno dato la vita sia sempre più circondato da un senso di colpa di «non fare abbastanza», di «sentire come un peso» colui che dovrebbe ricevere peso, di non riuscire, o non potere, essere prossimi a chi si trova a vivere in una condizione in cui la comunicazione è resa sempre più stentata e infine di risolvere attraverso il lavoro altrui quanto non si vuole, o non si può, fare in proprio. Le considerazioni con cui si apre il libro di Gad Lerner sono un richiamo opportuno a farci capire che il comandamento è rivolto agli adulti e non ai bambini. Le sue considerazioni si fermano però alla soglia dell’ultima stanza, là dove la conflittualità cessa assai più a motivo di una debolezza resasi manifesta che di una precaria riconciliazione avvenuta grazie a una distanza accettata.
Piero Stefani