278 – Il barattolo del caffé (17.01.2010)

Il Pensiero della settimana n. 278

Il barattolo era più alto del solito e si presentava come uno svettante cilindro colorato. Conteneva caffè. Sul fianco una sigla di colore arancione gli richiamava vecchie consuetudini, anche se allora il marchio, impresso su tazze larghe, era più sfumato. In una di quelle conchette era solito bere un cappuccino all’ombra dei torricini del palazzo ducale di  Urbino. In quelle circostanze più volte gli capitò di gettare lo sguardo sulla parte dove c’era un foglio incorniciato con su scritto alcuni versi di Paolo Volponi: celebravano quel luogo posto sotto la gran mole del palazzo, presso l’ingresso del teatro e prossimo a un  tornantino di una strada alberata. Quella consuetudine gli aveva reso familiare il marchio e l’aveva indotto a riflettere ancora una volta sul caffè. Se a pranzo tutti i giorni si mangiasse lo stesso piatto di pasta, il cibo verrebbe a noia. Le cose non stanno così per la bevanda scura e intensa che accompagna le nostra mattine e i nostri dopopranzi: per chi la ama la ripetizione è sostegno, non ossessione.

Questi ricordi lo avevano predisposto a guardare con fiducia al barattolo. Ne rimase deluso. Il gusto del caffè non lo conquistò. Si rammaricò dell’altezza del cilindro, indice del fatto che si trattava almeno di cinquecento grammi. La polvere scura l’avrebbe perciò accompagnato anche troppo a lungo. Aveva guardato piuttosto distrattamente le altre caratteristiche del  barattolo. Ricordava che tendeva a un verde alquanto cupo. Aveva ben impresso che al centro c’era una foto: un volto di una persona di colore, già anziana, circondata da piante di caffè. Non aveva però guardato con simpatia quell’oggetto, il suo contenuto gli suscitava un lieve disappunto. Pur non facendosene un vero e proprio cruccio aspettava il giorno in cui avrebbe potuto ritornare alla sua vecchia, cara miscela arabica. Una volta terminata la polvere il barattolo fu eliminato; del resto la sua altezza lo rendeva poco utile a contenere chiodi, bulloni o similia.

Qualche giorno dopo avrebbe invece voluto averlo sulla sua scrivania: quel caffè veniva da Haiti. Lo sapeva benissimo che era assurdo di fronte a una tragedia di dimensioni inimmaginabili preoccuparsi di un contenitore buttato via. Per lui però quella sparizione era divenuta un simbolo della distanza incolmabile che separa i destini umani. Nessuno sceglie il proprio luogo di nascita, eppure questa non decisione determina in larghissima misura le nostre  esistenze.

Il barattolo del caffè era legato a dei lodevoli tentativi di ridurre, attraverso un commercio più equo, lo sfruttamento dei poveri. Piccola cosa di fronte alle grandi macchine alimentate a ingiustizia che reggono l’economia mondiale. Ma anche fragilissima azione rispetto al cieco sussulto della terra. Quando la devastazione occupa l’intero orizzonte nulla è più come prima. Si ricordò di Messina. Di fronte alla ex chiesa medievale, incredibilmente restata in piedi, gli avevano fatto notare quale fosse il livello del suolo prima del cataclisma: era almeno un metro più in basso. Gli dissero: «camminiamo sulle macerie e suoi morti». A un secolo di distanza nella città dello Stretto si percepisce ancora la parola propria dei reduci dai lager: «è successo, potrebbe succedere di nuovo».

Pensò ad Haiti, non solo al numero sterminato di morti, ma anche ai  soccorsi, alla lenta ricostruzione. A poco a poco la notizia scivolerà dalla prima pagina a quelle interne. Poi sparirà. Tuttavia a Porte-au-Prince, un agglomerato urbano di due milioni di abitanti (un quarto della popolazione dell’intero stato), per molti decenni si respirerà nell’aria un inestirpabile senso di precarietà legato a quanto è successo. Sì,  il fatto stesso che sia accaduto lo inscrive nell’ambito delle realtà che si possono ripetere.

Concluse tra sé : «Ci sono giornate in cui ci si chiede il significato di quanto si fa. È falso dire che siamo tutti haitiani; la distanza è immensa, incolmabile. Tuttavia per sconvolgere il senso del normale procedere basta il  lampo di pensiero che  avremmo potuto anche essere haitiani. Il barattolo me lo avrebbe ricordato. Ma altri hanno già detto quanto sono costretto a ripetere: l’animo umano non è fatto per reggere troppa verità. Il cilindro è finito nella spazzatura e la discarica della distrazione umana  non ha  confini».

Piero Stefani

278 – Il barattolo del caffé (17.01.2010)ultima modifica: 2010-01-16T09:04:00+01:00da piero-stefani
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