269 – Tutte le cose visibili e invisibili (15.11.09)

Il pensiero della settimana, n. 269

 

Non è raro che le preghiere divengano formule, vale a dire che le si ripeta senza riflettere a quanto si dice. Le ragioni di questo dato di fatto sono molte: abitudine, reiterazione, distrazione, ecc. Tuttavia a monte di ciò più volte vi è anche la difficoltà di comprendere le parole che si recitano. Tutti, fin da bambini, conoscono il Padre nostro, ma quanti saprebbero spiegare con pertinenza il significato della domanda iniziale: «sia santificato il tuo nome»?  Essa, in effetti, rimane inintelligibile se non ci si immerge in una cultura biblico-giudaica che non fa parte dell’educazione alla fede della massima parte dei credenti. Sarebbe imperdonabile colpa intellettualistica affermare che le preghiere hanno senso e scopo solo se si comprende culturalmente quanto si dice; ma ciò non esonera dal constatare che spesso il linguaggio di preghiere pur ripetute miliardi di volte è ugualmente inintelligibile.

La dinamica diviene ancor più polarizzata quando si tratta di testi elaborati con categorie concettuali molto formalizzate. Il caso più tipico è costituito dal Credo recitato nel corso della messa festiva. Il problema si dischiude fin dalla prima riga: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra di tutte le cose visibili e invisibili». Chi studia la formazione del testo sa che l’ultima clausola è stata inserita in un secondo momento. Quale ragione ha indotto a tale specificazione? «Cielo e terra» si presenta come un’allusione alla prima riga della Bibbia (Gen 1,1) ma lì non si parla affatto di una distinzione  tra le cose che si vedono e quelle che sono sottratte alla vista. Dunque ci troviamo di fronte non a un richiamo biblico, bensì a una confutazione di eresie dualistiche di tipo gnostico e marcionita. Per queste ultime il mondo spirituale era prodotto da un Dio buono, mentre quello materiale proveniva da un Demiurgo malvagio. Per la fede ortodossa era invece necessario sostenere che un solo Dio aveva creato tutto e che la bontà della creazione valeva sia per l’invisibile sia per il visibile. Con il primo termine si voleva dunque  indicare il mondo materiale e con l’altro quello angelico e spirituale.

Anche molti secoli fa si era consapevoli di vedere il lampo e non il tuono. Il rombo conseguiva comunque a quanto si era visto, proprio come il suono di una parola proveniva dal dischiudersi della labbra (altro, ovviamente, il discorso rispetto a comprenderne il senso). In qualche modo si potrebbe affermare che l’invisibile fisico era un sottoinsieme di quello visibile. Tuttavia, se oggi poniamo l’espressione «tutte le cose visibili e invisibili» davanti un fisico, egli non evocherà mai alcuna distinzione tra materiale e spirituale. A rientrare nella sfera dell’invisibile è infatti la stessa materia. Né si tratta di misurarci con particelle così piccole da non essere ancora scorte con i mezzi tecnici in nostro possesso: si tratta proprio di invisibile, non già di qualcosa di non ancora visto. Si parla infatti di materia oscura, di cui per la verità poco si sa, tranne che il suo contributo all’energia dell’universo è almeno cinque volte più abbondante di quello della materia normale. Si sostiene poi che l’energia oscura costituisce il 73% dell’intera energia dell’universo, mentre la materia normale e oscura si spartisce solo il restante 27%.

Quanto fin qui detto indica poco più che una banalità: le formulazioni della fede sono legate a linguaggi culturalmente datati, esse perciò possono essere recepite in modo conveniente solo attraverso un’operazione ermeneutica che sappia decostruire il linguaggio per salvaguardarne il messaggio autentico. Il punto nevralgico consegue da ciò. Il modo in cui si parla dell’universo è diversissimo a seconda delle epoche. La cosmologia odierna non ha precedenti nella storia, e ciò è valido a qualunque corrente si faccia riferimento. Gli antichi atomisti, per esempio, sostenevano l’infinito dell’universo solo perché dichiaravano che occorreva un vuoto senza confini per contenere  un infinito numero di atomi in movimento. Per loro nulla sarebbe stato più inconcepibile di affermare che l’universo è in espansione senza che questo espandersi avvenga in un precedente vuoto. Le cosmologie mutano in continuazione e perciò è sempre fuorviante legarle a Dio.

Ogni tentativo di risalire dall’universo – in effetti da una determinata concezione dell’universo – a Dio, per quante cautele si vogliano introdurre nel procedere, proietta inevitabilmente su Dio qualcosa derivato da una visione cosmologica comunque provvisoria e rivedibile. Un discorso analogo va introdotto quando si voglia far interagire Dio con l’universo descritto in termini fisici. Pur prendendola più come metafora che come paragone rigoroso, resta emblematico che Aristotele abbia parlato del Motore immobile nei libri di fisica e non già in quelli di metafisica. Colto da questo punto di vista il discorso non muta di una virgola  quando ci si trova di fronte a un universo descritto in termini evolutivi o quantistici  invece che diviso tra sfere celesti e mondo sublunare.

All’interno di una corretta visione della creazione, rimane valido affermare il carattere antidualistica dell’espressione «di tutte le cose visibili e invisibili»; il riferimento però essere impiegato per descrivere e qualificare in modo fisico e spirituale l’attività creatrice di Dio.

Piero Stefani

 

 

269 – Tutte le cose visibili e invisibili (15.11.09)ultima modifica: 2009-11-14T08:47:00+01:00da piero-stefani
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