270 – Abramo il popolo ebraico e gli altri popoli della terra (prima parte) (22.11.09)

Il pensiero della settimana, n. 270

 (prima parte) [1]

 

Una  delle promesse che Dio collega  alla chiamata di Abramo è di rendere grande  il nome del patriarca (Gen 12, 2). Essere tuttora convocati nel nome di Abramo non è realtà scontata. Irriducibile è la differenza tra il suo nome e quelli che, diffusi fra tutte le famiglie dell’adamà (suolo, terra), possono, ai nostri giorni, rivendicare a loro stessi l’universalismo greve della globalità. Questo tipo di grandezza spetta non all’antico patriarca biblico, bensì ai sinuosi caratteri bianchi su sfondo rosso della Coca cola. In questo caso  è arduo invocare la benedizione estesa ai popoli, mentre si è costretti a prendere effettivamente atto che la scura, effervescente bevanda è davvero diffusa in tutti gli angoli del globo.

Al di là di ogni ulteriore considerazione, rendere grande il nome di Abramo significa far sì che esso sia ancora ricordato. «Ingrandirò il tuo nome» se gli uomini lo trasmettono. Colto sotto una determinata angolatura, il nome di Abramo è un puro flatus vocis: se tutti smettessero di parlarne, se nessuno prendesse più in mano il Libro, di lui non ci sarebbe più traccia alcuna. Se  non fosse ricordato, neppure i suoi discendenti saprebbero di essere  tali.

Caratteristica peculiare della Scrittura è di parlare del Dio di Abramo, del Dio di Isacco, del Dio di Giacobbe (Es 3,6; Mt  22, 32). Anche il Dio biblico – non quello coranico – affida la memoria che gli uomini hanno di lui ai nomi patriarcali. In questa associazione vi è l’incontro tra la volontà divina di rendere grande il nome di Abramo e la vocazione «dialogico-umanistica» del Signore di Israele che – a differenza di quanto avviene per Allah –  qualifica sé stesso con nomi propri delle sue creature. Anche il ricordo di Dio è perciò, in qualche modo, affidato alla memoria del patriarca (e viceversa). Come direbbe Paolo De Benedetti, qui davvero Dio è sulle labbra degli uomini.

«Oggi il nome di Abramo è diventato grande – con il nome di Dio grande e tremendo – perché in tutto il mondo è proclamata una tale definizione: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. È questa la grandezza di Abramo» (Ruperto di Deutz).  Abramo è grande, prima ancora che a motivo di  una discendenza o di una terra, per il fatto di vedere il suo nome legato a quello di Dio. Secondo il magistero di Pascal, non è il  Dio dei filosofi e dei dotti  – vale a dire del Dio raggiungibile a partire dal mondo (o meglio da una certa interpretazione del mondo). Si tratta del Dio che si raggiunge con  una «certezza» qualitativamente diversa da ogni altra. Il Dio di Abramo è colui che ci chiama e ci interpella restando nascosto (o più precisamente colui che si tiene nascosto, El mistatter – Is   45, 15).

Si può conoscere Abramo solo attraverso le storie e mediante i testi.  Se cessassero i racconti, se scomparisse la capacità di leggere, nel mondo degli oggetti non resterebbe nulla di lui: neppure i residui. Le lattine sono proprie della Coca cola, non dei patriarchi. Tuttavia Abramo rappresenta anche l’eccedenza del nome rispetto al testo biblico. Anche qui irrompe l’Islam. Allah non è collegato al nome  patriarcale, eppure nel Corano si parla molte volte di Abramo. Di lui si dicono molte cose, ma tra esse forse primeggia la scelta di considerarlo un hanif, vale a dire un monoteista puro. Abramo simboleggia  la possibilità di giungere a Dio a partire dalla constatazione che gli elementi del mondo non si reggono da soli. Egli è il prototipo di chi è in grado di uscire, con le sue sole forze, dall’idolatria. È l’uomo che giunge a Dio senza consultare altro libro da quello del creato; ma a dircelo sono i testi. Per affermare la capacità di Abramo di risalire dal creato al Creatore, atto compiuto senza memoria e senza racconti, dobbiamo ricorrere al Corano (e al midrash). Abramo esce nella notte e vede il cielo stellato e, preso da stupore, prende la stella come suo signore, ma poi l’astro si dilegua ed egli esclama di non amare quanto tramonta. Lo stesso avviene per la luna e per il sole. Allora « gridò Abramo: “O popolo mio, sono innocente della vostra idolatria! Io volgo la faccia verso Colui che ha creato il cielo e la terra, in purezza di fede, e nessun compagno a Lui voglio dare!”»  (Corano 6,78-79; cfr. Bereshit Rabbà  38,19).

Le storie ci comunicano che Abramo nacque in una famiglia di idolatri. Lo affermano per poterne dire una fuoriuscita avvenuta in virtù di se stessi e non già di una risposta alla chiamata divina; proprio perché Dio è nascosto, Egli può, in qualche modo, essere intravisto da tutti, mentre resta saldo il suo non essere afferrabile da parte di alcuno. Il punto di partenza è comunque l’idolatria. Essa consiste nell’assumere il visibile come divino. Quando si scambia per direttamente universale la visibilità particolare di quanto è scritto in un libro, allora anche la lettura può diventare idolatrica. La figura di Abramo rappresenta l’eccedenza testuale di un testo.

Piero Stefani




[1] Conversazione tenuta nel corso della «Due giorni teologica:  “La Parola di Dio ci interpella: ‘In te saranno benedette tutte le famiglie della terra’ ”»  Messina, 14 novembre 2009.

270 – Abramo il popolo ebraico e gli altri popoli della terra (prima parte) (22.11.09)ultima modifica: 2009-11-21T10:44:00+01:00da piero-stefani
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