231 – Il Te Deum di fine anno (28.12.08)

Il pensiero della settimana, n. 231.

 

Secondo una consolidata consuetudine liturgica cattolica, l’anno si chiude con la recita del Te Deum. L’inno (a prescindere dai contenuti alti dei suoi versi celebrativi della «storia della salvezza») è divenuto il più noto tra tutti i testi di ringraziamento. Lo si recita alla fine di ogni giro della terra attorno al sole, anche quando sul nostro pianeta vi sono stati eventi catastrofici. La ragione più profonda di questa prassi non è rendere grazia a Dio per quanto è stato; è celebrarlo perché siamo ancora qui in grado di cantare le sue lodi. Lo stupore è che ci siamo ancora nonostante il fatto che nulla, nelle nostre esistenze, sia in grado di assicurarsi un simile esito. La vita presa in se stessa garantisce solo in modo cogente di essere destinata a finire. Molte sono le cause da cui dipende il termine, incertissimo ne è il tempo, sicuro e fatale è che esso, secondo natura, sopraggiunga. Il Te Deum di fine anno contiene, perciò, un’eco dell’antico canto di Ezechia nel quale è negato al mondo infero (sheol) di rendere grazie a Dio perché la lode è di spettanza dei vivi che possono dire «oggi» (cfr. Is 38,18-19).

Una formula liturgica ebraica che si recita sia quando si giunge alle feste, sia quando si mangiano le primizie della terra, benedice il Signore perché ci ha fatto vivere, ci ha consolidati e ci ha fatti giungere a questo tempo. Niente di quanto esiste  trova in sé stesso la propria consistenza. In un certo senso, la benedizione presuppone la consapevolezza di Qohelet che tutto sia hevel, vale a dire sia un soffio destinato a venir meno. È a partire da questo disincanto che si benedice Colui  che ci ha condotti fino ad ora. Soltanto la sua cura poteva tanto. La benedizione è il canto dei vivi: il Te Deum potrebbe essere altrettanto. Esso dovrebbe nascere dall’essere consci della fragilità delle nostre  vite.

 Nella esistenza quotidiana, per esprimerci in un linguaggio conforme al succedersi comune dei giorni, la persona ottimista è spesso insidiata dalla delusione. Chi molto attende da se stesso, dagli altri, dalla società e dalla storia più e più volte resta smentito. Se i rovesci si susseguono gli uni agli altri, il suo orizzonte, da roseo, si capovolge in cupo. La depressione varca la soglia dell’animo, accompagnata, non di rado, da un’infida compagna: la propensione a colpevolizzare chi ci ha deluso. Invece colui che, pur resistendo al disgusto del vivere, sa che il «peggio» è sempre accovacciato alla propria porta, più volte si trova, con meraviglia, nelle condizioni di prendere atto che nella vita si dischiudono più possibilità positive di quelle da lui preventivate. La persona che non mette in conto di essere ringraziata gioisce della gratitudine  di cui è beneficiata assai più di chi presuppone che la riconoscenza gli sia dovuta; in quest’ultimo caso, infatti, il ringraziamento è accolto come un tributo obbligatorio, mentre la sua mancanza suscita rancore. Il Signore che ci ha creati e ben ci conosce non attende molto da noi: sa con quale pasta ci ha plasmati.  Se ci ha fatto giungere la sua parola e i suoi comandi è per invitarci a non dissipare le nostra vite; non l’ha fatto perché ha bisogno del nostro grazie. Per questo amiamo pensarle che gioisca sorpreso quando noi esseri poveri, sofferenti e spaesati lo lodiamo per il nostro semplice essere vivi. Dio non colpevolizza i Giobbe di ieri e di oggi costretti a sopportare con spalle gracili pesi troppo gravi e si intenerisce quando i suoi figli gli dicono grazie per il loro esistere.

Nella vita di tutti i giorni sono frequenti i grazie pelosi e interessati che non è bene ricevere e ancor meno pronunciare. Lungo i secoli cristiani gli orecchi del Signore sono stati riempiti di miseri Te Deum pomposamente  cantati per celebrare vittorie del potere spacciate per trionfi della fede. Recitare il nostro grazie a Dio per il fatto di essere vivi è antitesi perfetta a quegli pseudotrionfi. Vi è un Te Deum che siamo in attesa di recitare e che non riguarda solo il nostro essere giunti fino a oggi. Esso è collegato a un’altra fine, quella della cristianità. In effetti, l’intreccio organico tra il cristianesimo e quanto Hegel avrebbe chiamato lo Spirito oggettivo (società e istituzione) è morto da tempo. Questa scomparsa avrebbe dischiuso possibilità nuove e più fedeli all’evangelo, se le gerarchie ecclesiastiche (specie nella Roma posta al di qua e al di là del Tevere) si decidessero a non spacciare  per vivo il vuoto simulacro di cristianità da cui sono circondati. Vi sono Te Deum che  vanno recitati anche per un decesso nella consapevolezza che  la lode spetta ai vivi e non ai defunti.

Forse nelle nostre vite ci sarà dato di rivolgere il nostro grazie a Dio per l’autodissolversi di ogni trionfalismo. Detta a fine 2008 la previsione  sembra utopia, ma lo sgretolamento avanza inesorabile e poco a poco la schiettezza infantile sulla nudità del re si propagherà fra la folla. Quando ciò avverrà,  per il credente in Gesù Cristo diverrà ancor più acuminato un pungolo costitutivo del suo credere: come possiamo tener assieme il mite grazie rivolto al Padre per averci fatti giungere fino ad oggi con l’invocazione Marana tha,  «Vieni, Signore» (1 Cor 16,22) a cui ci chiama l’incontenibile speranza che abita in noi? Il proprio della fede evangelica sta nell’essere legati ad affermare l’una e l’altra cosa pur sapendo che tra esse sussiste una tensione non componibile. Accettare la caduta della cristianità consegna perciò il credente al paradosso più profondo inscritto nella sua fede (ed è proprio di ciò che hanno paura – in parte in maniera persino inconscia – i difensori dell’attuale «disordine costituito»).

Piero Stefani

 

 

 

231 – Il Te Deum di fine anno (28.12.08)ultima modifica: 2008-12-27T05:45:00+01:00da piero-stefani
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