232 – Il Miserere in Dante e in Manzoni (1) (04.01.09)

Il pensiero della settimana, n. 232

 

Tra tutti i salmi penitenziali (Sal 6,32,38,51,102,130, 143), nessuno è stato recitato quanto il Miserere (Sal 51 [50]). La sua drammatica soprascritta, «quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea», lo ha, da sempre,  associato a Davide penitente. Se si tiene conto della simbolica paternità davidica dell’intero Salterio, si comprende perché quelle parole siano considerate tra le più personali dell’intera raccolta e. quindi. dotate di un maggior grado di identificazione da parte di  coloro che hanno avvertito le loro vite segnate dal peccato.

 

I due massimi capolavori della letteratura italiana, la Divina Commedia e I promessi sposi si attestano anch’essi lungo questa linea. Il discorso di Manzoni è, però, più  univoco, mentre quello di Dante si colloca in un ambito molto più articolato. Nel romanzo il Miserere doveva, per forze di cose, essere tenuto in serbo per l’innominato. Esso riguarda, esattamente, la scoperta, sollecitata in lui dal colloquio con il cardinal Federigo, che il Dio, impossibile da vedere e da toccare, è, in realtà, vicino. L’innominato,  sciogliendosi dall’abbraccio di Federigo, «si coprì gli occhi con la mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! Io mi  conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno sempre davanti [Sal 51, 5]; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! Eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provato mai in tutta questa mia orribile vita” [cfr. Sal 51, 10]» (I promessi sposi,  XXIII, 175-180).

 

Una grande massima spirituale invita a distinguere tra peccato e peccatore; tuttavia questo procedimento non può essere fatto troppo precocemente proprio da chi si pente: per lui la sua colpa deve stargli sempre davanti. Infatti ci si rende davvero conto di quanto si è compiuto non già mentre lo si sta facendo, ma solo dopo,  quando ce ne si pente: «io mi conosco ora». Se questo gravame si incontra con il perdono allora l’animo è trasportato in una dimensione nuova. Si è riconciliati con se stessi in virtù di qualcosa che viene dal di fuori. L’unicità del perdono sta nel suo essere una realtà che non  possiamo procurarci da soli e che nel contempo ci tocca nel nostro più profondo, trasformandoci: «ho ribrezzo di me stesso; eppure…!». Per questo il perdono, pur senza abdicare alla responsabilità interumana, chiama in causa Dio. In qualche modo è vero che manca ancora qualcosa quando si riceve il prezioso e insostituibile perdono dal prossimo che si è offeso. Si tratta di un passaggio  imprescindibile, così come lo è  la necessità di porre rimedio, per quanto è dato, al male fatto. Eppure…! Eppure si avverte che il perdono, quando è completo, tocca vette più alte di quelle raggiungibili con le forze umane. Infatti non è concesso alla creatura, neppure quando si pente o quando perdona, di modificare il passato, mentre ciò è, misteriosamente,  possibile al «Dio veramente grande!».

 

In questa luce va inteso  anche il verso più sconcertante di tutto il Miserere,  là dove Davide, che così gravi colpe ha commesso contro gli uomini, esclama rivolgendosi al suo Dio: «contro te, contro te solo  ho peccato» (Sal 51,5). Davide, l’innominato (e Ludovico-Cristoforo) sono stati omicidi. Di questo atto ci si può pentire, ma la vittima non può più perdonare  il suo assassino e nessuna altra creatura può prenderne davvero il posto. Per essere toccati dall’abisso del perdono più profondo occorre essere toccati da chi ci trascende. Laicamente questo appellarsi a Dio può, con fondati motivi, essere assunto come un espediente volto a stemperare le proprie responsabilità e come pia scorciatoia volta a raggiungere un sollievo psicologico; il rischio è ben reale, tuttavia resta ugualmente che nella fede riscoperta dall’innominato il perdono divino è un modo per tenere assieme, non si sa bene come, il ribrezzo di sé e il refrigerio: eppure…!

 

Nella Divina Commedia il primo riferimento al Miserere coincide con la prima parola pronunciata da Dante nel corso del suo viaggio. Non si tratta però di un’espressione di pentimento. Si è ancora nello smarrimento e in questi frangenti non si è nelle condizioni di conoscere se stessi. Si sa soltanto di essere perduti a meno che dall’esterno non venga, improvviso, un aiuto. In questi casi il Miserere si fa grido.

I raggi del sole avevano un poco quietato la paura dello smarrito.  Si può, quindi, già avanzare il paragone con colui che guarda il mare in tempesta dopo esserne scampato (I, 22-24); la salita verso il colle illuminato è tuttavia ostacolata dall’incontro con le tre fiere (cfr. Ger 5,6), l’ultima delle quali, la lupa, fa perdere a Dante «la speranza de l’altezza». L’incontro con la «bestia senza pace» costringe Dante a «rovinare in basso loco». È in quel frangente che, di fronte agli occhi dell’uomo disperato  che precipita quando già confidava di essere in salvo, fu offerta una figura ancora indefinita: « “Miserere di me”, gridai a lui, / “qual che tu sii, od ombra od omo certo!”» (I, 65s.). Il grande pellegrinaggio nell’aldilà inizia con la prima parola – citata in latino – del più celebre fra tutti i salmi penitenziali; tuttavia il riferimento viene compiuto per attestare non già l’ingresso nel pentimento, ma per indicare una situazione ancor più basilare: l’aver bisogno impellente di soccorso.    Virgilio allora si svela a Dante.

 

 Il colloquio tra i due poeti non si limita a celebrare la loro comune arte, esso tocca anche la profezia, si annuncia infatti all’apparire di un veltro che ricaccerà all’inferno la magra, insaziabile lupa (cfr. I,100-111). L’aiuto più autentico che si può offrire a una persona è dare ancora alito e vita alle speranze che più le stanno a cuore. Esse, quando sono più autentiche e profonde, riguardano non il proprio intimo ma la storia del mondo. Il poeta-profeta Dante doveva udire parole che gli attestassero la certezza del giorno benedetto (non ancora giunto a visitarci)  in cui la società umana sarebbe stata liberata dalla bramosa fiera simbolo dell’inestinguibile, perverso, bisogno di possedere.

Piero Stefani

                                                                                                                                                                                                                                                                                                 

 

 

232 – Il Miserere in Dante e in Manzoni (1) (04.01.09)ultima modifica: 2009-01-03T00:00:00+01:00da piero-stefani
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