230 – La gloria e la pace (21.12.08)

Il pensiero della settimana, n. 230

 

I pastori se ne stavano all’aperto, vegliavano e facevano la guardia alle greggi. Si presentò loro un angelo circonfuso di luce, ne ebbero timore. Ciò avvenne perché essi, come Maria (Lc  1, 30), potessero udire un dolce invito a non temere (Lc 2,30). Non si trattò di un generico conforto, il motivo è  più vero e profondo: nella città di Davide «è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc  2,11).

In questi versetti Luca compie uno slittamento rispetto a un consolidato uso biblico: di solito con città di Davide si intende Gerusalemme, mentre qui siamo nella piccola Betlemme. Nel terzo vangelo non c’è la drammatizzazione proposta da Matteo che parla di Magi, di Erode, di sacerdoti, di scribi e di antiche profezie (Mt 2,1-6; Mi 5,1), in esso domina  l’atmosfera pastorale. Sarebbe però un errore pensare in termini bucolici. Tutto muta se si tiene presente che qui ci si richiama non alla città grande sottratta ai gebusei da Davide, divenuto conquistatore potente (2Sam 5,6-8), ma alla chiamata del più piccolo tra tutti i figli di Iesse. A seguito di un ordine del Signore, Samuele si reca a Betlemme. Là giunto gli furono presentati nell’ordine Eliàb, Nabinadàb, Sammà e altri quattro figli di Iesse: nessuno di essi fu gradito al Signore. Alla domanda del profeta se ci fosse ancora qualcun altro, gli fu  risposto: «“Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge”. Samuele disse a Iesse: “Mandalo a prendere…”» (1Sam 16,11). La voce angelica rivolta ai pastori si inserisce in una storia davidica contraddistinta tanto dalla cifra di piccolezza, quanto dalla promessa messianica. Porre in scena greggi e pastori significa soprattutto evocare storie  bibliche (e non già emarginazioni sociali).

Rispetto all’episodio antico, le parti ora si mutano: nessun pastore è sottratto al gregge per essere unto re. Il compito è altro: vedere un segno costituito da un bambino avvolto in fasce e adagiato su una mangiatoia (Lc 2,12). Qui non è chiamato il minore, sono piuttosto i pastori ad andare dal più piccolo. La voce angelica sembra però, sulle prime, muoversi lungo un registro più solenne, parlando di gloria nei luoghi altissimi e pace sulla terra tra gli uomini toccati dal beneplacito divino (Lc 2,14). La lode risuona comunque lontano dalla mangiatoia. Le capannucce con su la scritta «Gloria in excelsis Deo»  non colgono nel segno. Nel vangelo gli angeli sono fedeli al loro etimo che li vuole annunciatori: la loro voce è un invito ad andare. Il bambino, i pastori, Giuseppe e Maria:  presso la mangiatoia  tutto è umano. L’angelo è una voce che chiama:  il prestarvi ascolto riguarda altri. Quando gli angeli si sono ritirati nei loro cieli, i pastori si esortano reciprocamente a camminare fino a Betlemme (Lc 2,15)

Essi vanno alla piccola città di Davide per vedere l’avvenimento (rēma) che il Signore aveva fatto loro conoscere (Lc 2,15): udire il buon annuncio (Lc 2,10) è già un conoscere. I pastori sono andati a Betlemme per contemplare, non per verificare. Il vedere è per loro semplice prolungamento dell’udire. Quando tornarono indietro verso le loro pecore, essi  glorificarono Dio per «tutto quello che avevano udito e visto, come era stato loro detto» (Lc 2,20). I custodi dei greggi hanno visto la parola annunciata diventare avvenimento. Non vi è occhio senza orecchio. Non a caso, il greco di Luca ricorre a uno stesso termine «rēma» per esprimere sia la parola dell’annuncio, sia il suo accadere (Lc 1,37.38.65; 2,15.17), sia la capacità di custodire nel proprio cuore quanto è successo (Lc 2,19.51). In essa è racchiuso l’annuncio, la celebrazione e la memoria. All’inizio la lode spetta a una moltitudine dell’esercito celeste (Lc 2,17); ma alla fine l’atto di glorificare e lodare Dio è affidato ai pastori: la mangiatoia ha sottratto la celebrazione agli angeli per consegnarla agli uomini.

«Gloria a Dio negli altissimi (hypsistois) e pace sulla terra tra gli uomini di cui si compiace» (Lc 2, 14) (forse bisognerebbe tradurre così). Hypsistòs Altissimo è nome divino impiegato fin dall’annuncio alla fanciulla di Nazaret (Lc 1,32.35.76; 6,35; 8,28). Con le parole rivolte ai pastori, gli angeli vogliono, dunque, semplicemente proclamare la gloria del Dio Altissimo. Questa qualifica superlativa non segna però alcuna supposta, incolmabile distanza in cui si pone il «totalmente Altro». Dio ha occhi e risiede là dove non c’è nulla sopra di lui, perciò, quando osserva, la sua vista è obbligata a guardare verso il basso. Il Magnificat lo afferma in modo definitivo: Dio guarda la condizione bassa dei suoi servi. Presso di loro Dio pone il proprio compiacimento (cfr. Sal 149,4).

Per due volte in Luca torna il sostantivo «compiacimento» («eudokia»), per due volte il verbo «compiacersi» («eudokeō»): un riferimento riguarda Gesù, mentre gli altri sono riservati agli uomini: « pace sulla terra tra gli uomini di cui si compiace» (Lc 2,14); «e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come di colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22); «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché in ciò è il tuo compiacimento» (Lc 10,21); «non temere, piccolo gregge, perché il Padre vostro si è compiaciuto di dare a voi il Regno» (Lc 10,32). Nel cuore di Dio c’è il Figlio, ci sono i piccoli e c’è il desiderio che la pace scenda sulla terra. Un celebre detto di Ireneo fa dell’uomo vivente la gloria di Dio; lo stesso può dirsi per la pace sulla terra. Occorre lo shalom che dà vita e non già morte. Senza la pace anche la gloria di Dio resta offuscata. Gloria a Dio e pace agli uomini: nessuno dei due termini preso in se stesso sussiste in pienezza.

Vi è chi dall’alto guardò in basso, vide solo una aiuola che rende feroci i propri abitatori. Anche Dio è tuttora costretto ad avere questo sguardo; ma se al centro dell’aiuola fiorisce una mangiatoia e dentro ad essa è posto un bambino, allora non è  morta in noi la speranza che la parola ultima sia riservata alla pace e non alla ferocia.

 Piero Stefani

 

230 – La gloria e la pace (21.12.08)ultima modifica: 2008-12-20T05:50:00+01:00da piero-stefani
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