213 – Prentazione del libro di Piergiorgio Cattani:Cara Valeria. Lettere sulla fede (13.07.08)

Il pensiero della settimana, n. 213.

 

Questo è l’ultimo intervento prima della pausa estiva. Il pensiero riprenderà la prima settimana di settembre. La sosta farà bene e a chi legge e  a chi scrive (non è sempre facile cogliere quando la ‘fedeltà’ comincia a tingersi di ostinazione).

Ci lasciamo mentre sia il mondo in generale sia  il nostro paese in particolare si trovano  in uno stato di crisi grave per mancanza congiunta di regole e di leadership. Il questo contesto forza e volgarità cercano, ognuno a suo modo, di riempire il vuoto. Pensare e riflettere sono i poveri segni di dignità e di  resistenza che ci restano.

Mi congedo con un testo lungo: la stagione dovrebbe consentirvi di leggerlo.

Un grazie a voi, ad Antonio Martino e a Cristina (sua moglie): in loro c’è solo fedeltà senza ombra di ostinazione.

Buona estate

Piero

 

 

Presentazione del libro di Piergiorgio Cattani,  Cara Valeria. Lettere sulla fede

(il Margine, Trento 2008)

Pesaro, Biblioteca comunale San Giovanni, 24 giugno 2008

 

Aprendo il libro mi sono chiesto perché le lettere che lo compongono siano 24; mi sono domandato se questo numero abbia un significato oppure no. Non pretendo di avere la risposta giusta: chi legge inventa le proprie ipotesi. Ciò fa parte della logica dello scrivere in base alla quale si consegna al lettore e alla sua intuizione (o fantasia) una serie di possibilità. Quello che dico con ogni probabilità non stava nell’intenzione dell’autore, butto lì la considerazione senza troppe pretese. Il numero 24 può avere tanti significati. Può avere  il senso di pienezza rappresentato dal doppio di 12, come nel caso dei 24 anziani dell’Apocalisse. Ma il senso di completezza c’è anche in certe manifestazioni artistiche. Qui a Pesaro siamo in una città musicale e quindi il 24 mi induce a pensare all’insieme delle due scale cromatiche.

Tutto ciò probabilmente non c’entra con Cara Valeria,  è una libera associazione per arrivare a un punto che mi sta a cuore. Si potrebbe paragonare il libro alla serie dei 24 preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach. Sarebbe una lettura  complessa ma anche troppo completa: la fede non può essere così esauriente. Allora mi sono venuti in mente i 24 preludi di Chopin. Un preludio dovrebbe, per definizione,  introdurre a qualcos’altro;  invece quelli di Chopin non anticipano nulla, dopo di loro non c’è alcun altro brano. Sono preludi autosufficienti. È un paradosso, un ossimoro. La fede è così: è nello stesso tempo una dimensione completa e incompleta. Completa perché costituisce un mondo, non una parte di mondo; tuttavia non si può pensare la fede se non come un preludio a qualcos’altro. Ciò è presente anche nella grande tradizione cristiana, a cui questo libro fa più volte riferimento: la parola ultima spetta non alla fede bensì all’amore. La riflessione ritorna in vari punti strategici del testo. La fede è come una serie di preludi ma in sé non ha la possibilità di racchiudere tutto: la parola definitiva, quella che non è ancora del tutto dicibile, eppure è in qualche modo, nel frammento, già fortemente vivibile, è l’amore (cfr. 1 Cor 13).

 

Chi è Valeria?

La seconda considerazione parte da una domanda: chi è Valeria? Abbiamo sentito che è un’amica nel senso alto del termine. L’amicizia è una realtà umana che non è data subito, è una condizione che si conquista e, per definizione,  non la si raggiunge mai da soli. È un cammino, un itinerario, una specie di preludio a una dimensione che, in questo caso, si può effettivamente raggiungere. Tuttavia resta il fatto che, per un lettore, il testo  non si presenta come un epistolario. Non ci si trova di fronte alla situazione in cui c’è una lettera inviata a cui segue la risposta  e così via.  Ci sono due interlocutori, ambedue interagiscono in prima persona; tuttavia il libro è costituito solo dall’insieme di lettere ‘a Valeria’. Vi è però una differenza, e non di lieve conto, rispetto a un genere letterario-pedagogico ormai fin troppo diffuso (per esempio lettera a mio figlio su questo, su quell’altro…). In questi casi la forma della comunicazione è davvero asimmetrica: chi scrive deve impartire un qualche insegnamento a chi riceve. In Cara Valeria  le cose stanno in modo diverso. I testi qui raccolti vogliono, come è proprio di ogni lettera, comunicare qualcosa; essi, però, non si muovono sul piano della  pedagogia o dell’ insegnamento. Non indicano la propria maggiore consistenza o autorevolezza. Si tratta piuttosto dell’eco di un dialogo effettivo in cui l’ascolto degli interventi altrui diventa sempre più incisivo: le parole di Valeria riportate dal libro sono poche, ma, con il passare delle pagine, emergono in maniera sempre più incisiva.

Per quale ragione avviene ciò? Un lettore è indotto a pensare, per ricorrere a un’espressione del cardinal Martini (non riportata nel libro, ma non è una forzatura inserirvela), che il testo rappresenti anche un dialogo con il «non credente che è in noi». Ovviamente ciò non va inteso nel senso che Valeria abbia la funzione strumentale di non credente messa in campo solo per stimolare le risposte del credente Piergiorgio. Si tratta piuttosto di un  dialogo «con il non credente che è in noi», stimolato da parole sia interne sia esterne. Questo tipo di colloquio rappresenta un momento indispensabile perché la fede maturi, perché la fede diventi capace non solo di ascolto ma anche di domande. La fede che non si fa domande  può, all’apparenza, sembrare granitica, in realtà è timida e paurosa. L’autore utilizza spesso in proposito la parola dubbio. Qualcuno potrebbe trovarlo un termine non del tutto consono; tuttavia, a ben vedere, ‘dubbio’ indica qui proprio la capacità di interrogarsi e di interrogare.  L’amicizia con Valeria è una via su cui cresce la capacità di porre e porsi domande. Per questo Valeria, oltre a essere certamente una persona reale, è anche una voce interiorizzata. La forma di lettere scritte da una parte sola fa sì che l’interlocutore diventi un’eco perenne, una voce di un dialogo interiore dell’autore con se stesso in cui viene coinvolto pure al lettore. Cara Valeria è un libro che fa pensare perché sospinge ciascuno a intraprendere in prima persona un dialogo interiore.

 Ci sono libri che non vogliono, né dal punto di vista formale né da quello intenzionale, essere delle lettere. Diventano però tali quando il lettore avverte  quelle pagine come se fossero  stato scritte proprio per lui. Quando il lettore si accosta a scritti che, per quanto non  direttamente indirizzati  a lui,  sono accolti come se lo fossero, avvengono reazioni molto intense. Non si resta mai indifferenti quando si può esclamare: queste righe sono state scritte per me. Nell’ambito della fede si tratta di un’esperienza coinvolgente e, relativamente parlando, frequente. Basti pensare alle lettere di Paolo: sono indirizzate alle comunità di Corinto, di Filippi, della Galazia e così via, ma quando le si legge nell’orizzonte della fede le si sente rivolte a se stessi: in effetti  è come se fossero state scritte  “per te”. C’è un genere di testi rispetto al quale il lettore si sente interpellato in prima persona. Ciò  avviene non solo quando si tratta dei libri della fede, ma anche, sia pure in maniera giustamente minore, quando si tratta di scritti riguardanti la fede. In quest’ambito un suo piccolo, quanto qualificato, spazio ha anche Cara Valeria.

 

L’annuncio della resurrezione

Nel libro, oltre a Valeria e Piergiorgio, compaiono vari altri personaggi.  In parte sono persone direttamente conosciute dall’autore (come per esempio Paolo De Benedetti che appare qua e là come una specie di ombra affettuosa),  oppure figure di persone mai incontrate, ma filtrate attraverso parole diventate lettere a Piergiorgio. A questa seconda categoria appartiene sicuramente Sergio Quinzio, una presenza diffusa e costante nel libro. Quinzio ha trasmesso, come anello di una generazione precedente, un annuncio che, per le comunità cristiana delle origini, era il più pubblico tra tutti. Al giorno d’oggi esso è tuttora  pubblico; tuttavia è come se fosse custodito solo da pochi. Ciò avviene non per l’irrompere di propensioni esoteriche, ma per il fatto che per i più esso ha perso di centralità. Perciò coloro che si sforzano di conservarlo nel proprio cuore si sentono, quasi loro malgrado, parte di una piccola comunità che testimonia una possibilità della fede che non è più comune a tutti. Eppure si tratta di un annuncio ripetuto ogni domenica dai credenti nelle chiese: «aspetto la resurrezione dei morti». Il termine di riferimento più qualificante si trova nel verbo aspettare. Alla fine si interrompe la lunga serie di «credo in … Dio Padre onnipotente… in Gesù Cristo… nello Spirito santo…» e si dice «aspetto». Non si tratta più di contenuti della fede (fides quae), ma di una vita posta all’insegna della speranza. Ma quanti sono coloro che oggi vivono attendendo la resurrezione dei morti?

Si ha tutta l’impressione che ormai ci si trovi di fronte a una formula semplicemente ripetuta, destinata a non incidere più nella vita dei credenti. Ma quando uno si rende conto che quella parola è stata annunciata per lui, l’orizzonte cambia. Il discorso sulla fede presente nel libro acquisisce una grande intensità intorno alla parola resurrezione. Che cos’è la resurrezione dei morti? In un passo di Cara Valeria è scritto: «per i cristiani la morte non è mai qualcosa di naturale» (p. 138). Obiezione: ma voi conoscete qualcosa di più naturale della morte? Ci sono infinite ragioni per rispondere negativamente alla domanda. Tutto, da che mondo è mondo, da che natura è natura, si regge sul ciclo ininterrotto di nascita e, quindi, di morte. Nulla più della morte è inscritto nell’intimità della natura. Eppure la frase citata  è assolutamente pertinente al dire e  al credere del suo autore.

Il  pensiero è scandito in vari modi, ma su questo tema due sono le note più ribattute. La prima si ricollega all’argomento di cui parlavamo prima, legato alla parola amore. Piergiorgio dichiara più volte che l’amore rompe il cerchio dell’egoismo. In questo senso esso non è naturale se, per natura, intendiamo l’insieme di regole che si ripetono in modo inesorabile e in cui è costante l’affermazione del più forte sul più debole e in cui l’egoismo, a tutela di sé o per la propria prole, è norma indefettibile. Tutto ciò che, nell’esistenza umana si muove in una logica  contraria a quella ora annunciata, attesta, contemporaneamente,  due cose: la preziosità e l’attaccamento a questa vita e il bisogno che la vita, cara e buona, sia salvata. Questo intreccio, in cui la realtà data viene custodita e nel contempo consegnata alla speranza, è una costante del libro. La seconda nota che spiega perché la morte è innaturale consiste nella forte percezione dello scandalo del male presente nell’animo umano. Perché il male fa scandalo? Potrebbe essere considerato un fattore necessario conforme alla natura: l’uomo è «tristo». Occorre difendersi e prendere semplicemente atto che le cose stanno così. Gli uomini agiscono male perché la loro è una natura non buona. Molti viventi sono, nel mondo, preda del  dolore  e della sventura per il solo motivo che le cose stanno così e non possono essere altrimenti. La volontà di rompere lo schema è semplice illusione. Perciò la constatazione  che si dica no al male, inteso nel senso più ampio del termine, attesta di per sé il bisogno, non meno radicale di quello dell’amore, di affermare che alla morte non è riservata l’ultima parola. La nostra sorte mortale non è prospettiva né da cancellare né da accettare così com’è. In sintesi, questo è il punto in cui Cara Valeria riverbera maggiormente la lettera scritta da Sergio Quinzio a Piergiorgio. Poi, è ovvio, nelle pagine del libro ci sono anche forti accentuazioni personali, ricordi autobiografici, valenze che esprimono la propria sensibilità e le proprie esperienze; la famiglia, le feste, i nipoti, i ricordi di infanzia, i giorni e le notti dei lunghi soggiorni estivi in val di Non… La fede e la speranza non sono vissute a prescindere dalle proprie condizioni di vita, al contrario si colgono dentro di esse.

 

Con-patire e con-gioire

Ora vorrei toccare un tasto indimenticabile del libro, si tratta della sobrietà con cui l’autore parla della propria condizione di vita. Il tema è praticamente consegnato a una sola lettera, la 16ª. Di queste pagine vorrei sottolineare soprattutto un aspetto. Qui la lettere sulla fede diventa anche uno scritto sulla laicità o, per ricorrere a un’altra espressione del cardinal Martini,  in Cara Valeria vi è anche spazio per una  specie di “cattedra dei non credenti”. Ciò accade quando l’autore, nell’unico squarcio autobiografico incentrato sulle propria distrofia muscolare, ci racconta che i laici lo hanno sempre considerato un essere umano con i suoi difetti, i suoi pregi, lo hanno giudicato e trattato come una persona paragonabile a loro;  di contro, nel mondo cattolico, in passato ma, in parte, anche ora, è emersa una tendenza a far appello a un uso strumentale dell’amore, a dar corso a un investimento utilitaristico della sofferenza: tu sei chiamato a dare testimonianza, nonostante la tua condizione credi in Dio, sei sereno e avanti così. Piergiorgio ha sempre rifiutato queste offerte, ha sempre preso le distanze dalla carità pelosa. Lo ha fatto, dice, quasi per istinto, forse senza comprenderlo. Del resto a tutti capita di capire il senso delle proprie scelte solo dopo averle compiute.

Il problema centrale resta quello del dolore, non quello del proprio dolore. In Cara Valeria non viene mai citato Giobbe: è un’assenza eloquente. Il libro biblico sul dolore  non viene mai chiamato in causa né nella parte degli amici che cercano di consolare Giobbe con vani argomenti, né in quella incentrata sulla protesta di Giobbe. Il fattore scatenante che ha indotto Giobbe ad alzare la voce è stata la propria sofferenza. L’elemento che Giobbe utilizza per interpretare la realtà è la sua sventurata condizione. In Cara Valeria le cose non stanno così. Dobbiamo essere grati a Piergiorgio di questo particolare che diventa per noi insegnamento preziosissimo. Nel libro si parla del problema del dolore e del male ma non a partire dalla propria condizione. In questo senso si tratta di pagine a un tempo giobbiche e anti-giobbiche. Il testo parla del dolore ma lo fa a partire dal dolore altrui.

 Non solo: c’è un altro elemento che diventa per noi una grande testimonianza: in  Cara Valeria viene resa centrale anche la dimensione della gioia altrui. Paolo, nella lettera ai Romani, scrive: «gioite con chi è nella gioia e piangete con chi è nel pianto» (Rm 12,15). Il monito legittima entrambi gli atteggiamenti, ma non lo fa pensando all’alternanza di cui parla, con distacco, Qohelet: «un tempo per piangere, un tempo per ridere» (Qo 3,4). La successione dei tempi vale per ciascuno come regola generale e non già come modo in cui si è chiamati a vivere. In Paolo invece gioia e dolore sono momenti compenetranti. Ciò avviene perché  la dimensione portante è quella dell’ “altro”: si è chiamati a conformarsi alla gioia e al dolore altrui. Piergiorgio cita il suo filosofo preferito, Levinas, che parla del volto dell’altro: l’altro ci comanda. Quindi quanto è decisivo non è tanto il gioire quanto il con-gioire, non è tanto il piangere quanto il con-piangere. Sergio Quinzio direbbe che la figura ultima della salvezza di Dio è la consolazione, cioè la capacità di trasformare in gioia il dolore altrui, custodendo nel contempo la sofferenza. Il regno è un con-gioire e un con-soffrire dove il primato spetta al “con”.

Nel libro di Piergiorgio c’è certamente Valeria, ma c’è anche Nicola. L’interlocutore diretto è Valeria, l’amica con cui si parla della fede, ma dietro di lei c’è Nicola, l’amico di sempre, il compagno che sta dietro alle spalle, a cui ci si può appoggiare. L’arco di un anno e mezzo lungo il quale si distendono le lettere è  segnato dall’annuncio delle nozze tra Nicola e Valeria, dalla celebrazione del matrimonio di cui Piergiorgio fu uno dei testimoni e dalla descrizione del periodo a esso immediatamente successivo. Il riferimento a quelle nozze è una costante. Tutte le 24 lettere sono legate al con-gioire e in ciò è racchiuso  uno dei messaggi fondamentali di Cara Valeria.

 

 

213 – Prentazione del libro di Piergiorgio Cattani:Cara Valeria. Lettere sulla fede (13.07.08)ultima modifica: 2008-07-12T07:15:00+02:00da piero-stefani
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