206 – Una proposta (25.05.08)

Il pensiero della settimana, n. 206

 

Nei nostri anni anoressia e bulimia sono disturbi diffusi, a volte drammatici fino a toccare l’autodistruzione. L’aura che li circonda si estende in più direzioni. Alcune sono proprie della sfera alimentare: si comincia, per esempio, a parlare di vigoressia, fenomeno tipico di chi intraprende diete particolari collegate all’esercizio di attività fisiche estreme. Altre propaggini sono, invece, di ordine metaforico.

Sul piano culturale, la maggioranza degli italiani soffre di una conclamata anoressia. Il patrimonio, già esiguo, acquisito negli anni della formazione scolastica, si assottiglia, con implacabile regolarità, nei decenni successivi. Le menti di molti nostri connazionali non reggono più la lettura di qualche pagina a stampa. Il rigetto è ormai sistematico e la magrezza assume l’aspetto dell’analfabetismo di ritorno.  Più raro è il lato bulimico. Le vittime di questa sindrome sono di numero assai inferiore alle precedenti. In questo novero rientrano i lettori forti e onnivori. Figure di bibliofili che stipano nelle dispense  delle loro librerie enormi quantità di cibo culturale e che ogni giorno consumano pasti tanto abbondanti da risultare di ardua assimilazione. Si tratta però di un piccolo sottoinsieme legato a prassi alimentari del buon tempo che fu. Le vere abbuffate connesse alla nouvelle cousine culturale, oggi, sono compiute dai frequentatori dei festival.

Negli ultimi tempi sembra che solo la dimensione pantagruelica sia in grado di muovere le folle.  Qualunque sia il tema, le piazze e le sale si riempiono se nel giro di poche ore si ficcano in esse eventi culturali fruibili soltanto da chi è vittima di una sindrome bulimica. Tuttavia più volte neppure una incontenibile voracità basta a smaltire le razioni offerte. Per farlo occorrerebbe essere gratificati del dono, ancora non concessoci, dell’ubiquità: mentre in un cortile si offre un aperitivo, nel parco si è al primo, dal canto loro i raffinati frequentatori di un chiostro degustano già il dessert. Solo il piatto forte della lectio magistralis riesce a sconfiggere la concorrenza.

In queste manifestazioni si è di fronte a una variante pubblica di quell’ horror vacui  che trova riscontri pervasivi nella nostra vita quotidiana. Tra essi primeggiano le musiche/rumori presenti in bar e negozi o la variante privata delle piccole auricolari divenute appendici insostituibili del corpo di molte persone. Siccome, per definizione, solo il vuoto può accogliere l’altro da sé, è conclusione cogente affermare che i tappi sonori infilati negli orecchi siano una cifra simbolica dell’esaurimento della capacità di ascolto  tipica  della nostra società.

La fantasia degli estensori dei menu culturali è ormai messa a dura  prova. È un po’ come le sagre: si è cominciato con alcuni prodotti tipici e ora si è costretti a inventare sedicenti specialità locali o a ricorrere a prodotti commerciali di larga diffusione (birra, nutella…): globalizzazione e localismi sono il nostro destino. I festival sembrano aver esaurito ogni ramo dello scibile: letteratura (Mantova), filosofia (Modena), spiritualità (Torino), economia (Trento), scienze (Genova, Roma), mente (Sarzana), storia (Gorizia), Bibbia (Vicenza), giornalismo internazionale e urbanistica (Ferrara), teologia (Piacenza) e chi più ne ha più ne metta.

Eppure… Eppure spazi vuoti (vale a dire accoglienti) e significativi ce ne sarebbero e sarebbero tali da scoperchiare l’equivoco tra forma e contenuto che non raramente contraddistingue queste manifestazioni. Cosa avverrebbe, per esempio, se un comune o un pool di associazioni organizzassero il festival dei rom? Tutti gli ingredienti sarebbero a disposizione: competenze, organizzazioni specifiche, riviste, studi, musica, danze, spettacoli, folclore. Sarebbero anche messi sul tappeto difficili problemi reali, impossibili da declinare in chiave idilliaca. Paolo De Benedetti è solito sostenere che l’amore del prossimo si misura confrontandosi con i condomini non con i poveri negretti. Analogamente, il banco di prova dei problemi dell’integrazione è il campo rom che si ha vicino a casa, non i discorsi sulla multiculturalità o la convivialità delle differenze. Le questioni ci sono e sono dure e scabre. Eppure il fatto che sia del tutto inimmaginabile che una qualunque istituzione italiana, pubblica o privata, laica o ecclesiastica, sia nelle condizioni – anche se lo volesse –  di organizzare il festival dei rom denuncia, di per sé, che razzismo e discriminazione sono scese davvero nelle viscere della nostra gente. In queste circostanze le parole generiche non bastano più.

L’ipotesi di allestire un festival è una provocazione. Non così proporre che il prossimo 27 gennaio, giornata della memoria, l’attenzione di tutti sia posta in modo privilegiato sui rom. Porajmos  (“devastazione”) è il termine da loro coniato per dire la loro Shoah. Fu un gruppo umano in tutto e per tutto uguagliato agli ebrei. I rom furono annientati non per come si comportavano, per le idee che professavano, per lo schieramento a cui appartenevano, ma per il semplice fatto di esserci, per la «colpa di esistere». A motivo della mancanza di dati anagrafici, è impossibile stabilire il numero delle vittime, ma è certo che esse furono varie centinaia di migliaia, e forse superarono il milione. Nel gennaio prossimo enti locali, istituzioni culturali, scuole, comunità ebraiche e musei della Shoah dovrebbero essere i primi a cogliere l’occasione. Sarebbe un monito su dove possono condurre determinati climi oggi dilaganti in Italia. Tuttavia non è sospetto infondato ipotizzare che alcuni dei potenziali soggetti organizzatori respirino un’aria pericolosamente simile a quella che dovrebbero combattere.

Piero Stefani

206 – Una proposta (25.05.08)ultima modifica: 2008-05-24T07:50:00+02:00da piero-stefani
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