204 – La prima vergogna (11.05.08)

Il pensiero della settimana, n. 204

 

La Cappella Brancacci, nella fiorentina chiesa di S. Maria del Carmine, appare come un residuo posto all’interno di un contenitore difforme. La facciata grezza, il vasto, anonimo, interno settecentesco della chiesa non lasciano presagire lo spazio affrescato, tanto marginale all’edificio quanto decisivo per l’arte occidentale. Vicende complesse sono alle spalle degli affreschi. Destini tormentati, tra incendi e restauri, li hanno condotti fino a noi. Oggi molto è stato chiarito e pochi dubbi son rimasti su quanto spetta a Masaccio e quel che va attribuito a Masolino. Tanti particolari sono usciti dall’incertezza, altri sono lì in attesa di essere decifrati. Tra essi, vi è il modo di interpretare la Cacciata dal Paradiso (secondo ordine del pilastro di sinistra sull’arco d’ingresso).

Si legge nella Genesi una storia diversa da quella affrescata sulle pareti. Il primo libro della Bibbia fa irrompere la nudità in un altro momento. Subito dopo aver mangiato il frutto, gli occhi delle prime due creature umane si apersero: allora si resero conto di essere nudi. Cercarono perciò di coprirsi intrecciando cinture di foglie di fico (Gen 3, 6). La narrazione primordiale inscrive nella tradizione dell’Occidente l’idea sia del nesso tra nudità e colpa sia dell’insufficienza dei tentativi umani volti a sbrogliare quel nodo. Davanti a Dio le foglie di fico si presentano per quanto sono  nel detto proverbiale: una copertura insufficiente. Di fronte alla vergogna provata dal proprio essere nudi, non resta che cercare di nascondersi (Gen 3,10-11).

Palesatasi la colpa, Dio maledice il serpente nel suo strisciare, la donna nel suo generare, l’uomo nel suo lavorare. Proprio dopo questo triplice atto «Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì» (Gen 3,21). Poi  Dio riconobbe all’uomo la capacità di conoscere il bene e il male, frutto del suo aver violato la proibizione legata all’albero. Il Signore comprende la forza contenuta nella sfida umana e teme che Adamo ed Eva possano stendere la propria mano anche sull’albero della vita e così sconfiggere la morte. Perché ciò non avvenga li scaccia dal giardino e pone a guardia dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante a custodia dell’albero (Gen 3,23-24).

Per la Genesi i progenitori sono allontanati dal ‘paradiso terrestre’ vestiti e ancora misteriosamente potenti. La narrazione biblica fa insorgere quasi il sospetto che le tuniche, più che un amoroso atto divino, siano indice della volontà di attenuare il potere espresso dalla conoscenza del bene e del male legata alla nudità.

In Masaccio quasi tutto differisce dal testo genesiaco. Adamo ed Eva sono scacciati da una città cintata dalla cui porta esce l’ordine di Dio, visivamente rappresentato attraverso un ventaglio di linee nere. La voce suona, di per sé, come un bando irrevocabile;  tuttavia essa è raddoppiata da un angelo rosso nei vestiti e nelle ali; dello stesso colore è anche la nuvola che gli fa da base (ma nera è la spada afferrata con la destra). L’angelica sinistra ha l’indice proteso in direzione opposta alla città: invece di cherubini posti a difesa, qui vi è una creatura celeste che coopera in modo attivo alla cacciata.

Nell’affresco la luce viene dal davanti; nulla, però, nel camminare dei progenitori indica speranza: nessuno dei due guarda in direzione del sole. Il suolo è arido e deserto. Nella scena la nudità appare con scoperta evidenza: le foglie di fico, per non parlare delle tuniche, sono  inimmaginabili. Nell’arte medievale  prima del Masaccio comparivano a volte dei nudi. Per la stragrande maggioranza dei casi erano presenti nei Giudizi universali per raffigurare i dannati. I beati venivano rivestiti delle candide vesti della salvezza, mentre i maledetti erano ignudi e, non di rado, beffardamente decorati dai segni della loro colpa: la borsa per gli usurai, il cappio o la spada per i suicidi. Nella sua Cacciata, il giovane Massaccio sembra traghettare in corpi classicheggianti lo spirito del giudizio medievale: l’essere nudi evidenzia una condanna davanti alla quale pare non dischiudersi alcun riscatto. Il bando sembra definitivo. I progenitori, però, evidenziano attraverso i propri corpi i segni della vergogna. Quanto, nella desolazione, li rende umani è quell’atteggiamento.

 Nitida risulta la differenza tra lui e lei. Adamo, ritratto con il capo leggermente reclinato, nasconde  il viso tra le mani; di contro, Eva, con gli occhi stretti rivolti verso l’alto, si copre con la destra il seno e con la sinistra l’organo genitale. L’uno, celando il volto, lascia scoperto il pene; mentre l’altra mostra la faccia. L’ambiguità dell’interpretazione è molto accentuata. Si sarebbe tentati di concludere che il maschio nasconde la parte più nobile della persona, mentre la donna si preoccupa di quelle che, a lungo, si sono chiamate le pudende. Quando si pongono le mani sul viso, lo si fa per non vedere o per non essere visti? Cercare di mascherare con le mani i propri genitali è, in ogni caso, un’operazione ancor più fragile che ricorrere alle foglie di fico: è la pura nudità che cerca di autocoprirsi. È inevitabile collegare il gesto al non essere osservati. Così del resto sembra di dover concludere anche per il viso: per non vedere basterebbe chiudere gli occhi. Per non far scorgere il proprio rossore o la propria espressione deformata ci si copre con la risorsa che sempre ci accompagna: le mani. Tuttavia, l’ambivalenza del celare qui diviene massima: il gesto fa sì che tutti sappiano che chi lo compie ha qualcosa da nascondere.

Per comprendere la scena affrescata da Masaccio occorre tener presente che i soli occhi lì presenti sono quelli, divini o angelici, capaci di penetrare al di là di ogni nascondimento. Le due figure esprimono l’ambivalenza della vergogna assunta allo stato puro. Allora forse non è del tutto peregrino evocare i passi della Genesi in cui le parole del Signore Dio dapprima dicono alla donna che le sue gravidanze si moltiplicheranno, che la sua passione la spingerà verso il suo uomo, ma che quest’ultimo la dominerà e poi prospettano all’uomo il duro lavoro della terra (Gen 3,16-19). In Masaccio le mani impediscono ad Adamo di vedere l’arido suolo, mentre in Eva cercano di mascherare lo scompenso che si è insinuato nell’originaria comunione tra il maschio e la femmina (Gen 1,27-28). Il collegamento ai passi biblici sembra aprire un’esile fessura nel muro compatto della condanna. La vergogna è qui connessa alle divine parole di maledizione rivolte all’esistenza umana sulla terra; essa, perciò, è storica e umana, non eterna. La vergogna non coincide con il  pentimento e tanto meno con la riconciliazione; piuttosto è paragonabile a un  torbido caos originario. Dimensione che in se stessa non garantisce nulla, ma senza la quale niente potrà mai nascere. La nuda vergogna è un’originaria condizione umana che tutti ci accomuna.

Piero Stefani

 

 

204 – La prima vergogna (11.05.08)ultima modifica: 2008-05-10T08:00:00+02:00da piero-stefani
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