194 – Labora et ora (02.03.08)

Il pensiero della settimana, n. 194

 

Nell’introduzione a un libro recente si legge: «chi tra noi […] non potrebbe dedicare buona parte del proprio tempo libero alla crescita personale, alla ricerca di Dio? È noto che famosi rabbini in Israele facessero i ciabattini e i taglialegna per guadagnarsi da vivere».

Vi è qualcosa di nobile nell’orientare il proprio tempo libero a Dio. Ormai non pochi, invece di andarsi ad arrostire sulle spiagge, vanno per conventi, partecipano a pellegrinaggi, frequentano corsi biblici, si arricchiscono interiormente con esercizi spirituali. È buona cosa. Altrettanto dicasi per la dimensione più ristretta della settimana o della giornata: nel loro scorrere è auspicabile riservare qualche angolino alle cose di Dio. Eppure, nella volontà di dedicare al Signore quanto è sottratto al lavoro, risuona ugualmente un accento stridente che mette in luce una ingiustificabile collocazione marginale riservata a Colui che dovrebbe essere il centro di tutto.

Gli antichi rabbini lavoravano per una sola ragione: ritenevano che per loro l’insegnamento della Torà non potesse essere fonte di sostentamento: non si comunica la parola di Dio a pagamento. Lavoravano, cioè, perché Dio avesse il primo posto e fosse sottratto alle leggi del mercato. Fu scelta saggia. Nel Novecento il grande intellettuale Yeshayahu Leibowitz ha impietosamente dimostrato i disastri che derivano in Israele dall’aver reso un mestiere l’essere  rabbino (cfr. J. Leibowitz,    Lezioni sulle «Massime dei Padri» e su Maimonide, Giuntina, Firenze 1999). In Italia la voce singolare e marginale di Luisito Bianchi  si batte da gran tempo, con santa ostinazione, per indicare quanto sarebbe consono a un sacerdote cattolico mantenersi facendo un lavoro comune (L. Bianchi, Dialogo sulla gratuità, Gribaudi, Milano 2004).

Su questi temi si può discutere e avere opinioni diverse. Tuttavia appare evidente che queste indicazioni attestano che si lavora proprio per essere fedeli alla parola.  Questa prassi ci dice che bisognerebbe vigilare non solo perché il proprio tempo libero sia dedicata alla ricerca di Dio, ma anche  perché l’insegnamento delle cose di Dio non divenga un mestiere.

Parlando nei giorni scorsi dell’ «ora et labora» benedettino p. Stefano Brina ha comunicato agli ascoltatori qualche frammento della sua esperienza personale. In essa il fisso riproporsi delle preghiere monastiche viene a interrompere, implacabilmente, i tempi del lavoro. Allora bisogna andare alla preghiera comune tentando di far uscire da sé le preoccupazioni legate al negotium, non però per negarle, bensì per presentarle anch’esse a Dio. Solo se si misura una distanza, il lavoro e quanto esso simboleggia può farsi presenza anche nel corso della preghiera. I tempi del pregare segnano sia una separazione, sia una unione.

Nella vita quotidiana del credente che vive in mezzo agli altri, Dio è presente soprattutto là dove non è ostentato. Il lavoro ha in sé la componente ardua e grande di farci  collaborare con chi non la pensa come noi. I nostri colleghi possono avere idee politiche, religiose, etiche tutte diverse dalle nostre, con essi però si è vincolati a cooperare all’interno di un’attività che ci accomuna. Il lavoro ha le proprie regole laiche che si oppongono a ogni aggettivazione di parte. I rabbini ciabattini erano titolari di un’arte che condividevano integralmente con tutti gli altri calzolai, fossero essi ebrei o gentili. 

Indulgere a qualificare con qualche aggettivo confessionale la propria professione è prassi ben nota  nel mondo dell’associazionismo cattolico, eppure anch’essa ha in sé qualcosa di stridente. Per più versi è infatti vero che nel mondo lavorativo bisogna operare «etsi Deus non daretur». Tuttavia questo principio non equivale affatto a sostenere che Dio non c’è. Si potrebbe piuttosto dire che al credente è chiesto di esercitare la propria ricerca di Dio anche quando lavora. Egli è chiamato a saperlo presente proprio perché nascosto.

Da un lato occorre lavorare per liberare la propria ricerca di Dio e lo studio della sua parola dal venire praticati come mestiere, dall’altro la voce più profonda che è in noi ci invita a dedicare a Dio ben altro che qualche spazio ristretto della nostra vita: egli esige molto di più, domanda di essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Bisogna amarlo anche quando non lo si nomina, anche quando non si pensa a lui. La presenza di Dio è un orientamento più radicale della stessa consapevolezza, della stessa coscienza che abbiamo di lui. Si può far affiorare Dio alla mente, il cuore può ripetere, come nell’esicasmo orientale, senza interruzione l’invocazione al Signore, ma più abissale di tutto ciò è la certezza che Dio volge a noi le sue  pupille anche quando noi non ci ricordiamo di lui. Il Padre vede nel segreto della nostra disattenzione non solo per giudicarci, ma anche per riscattarla e portarla a lui. Strumentalizzare Dio è più grave che dimenticarlo.

Piero Stefani

194 – Labora et ora (02.03.08)ultima modifica: 2008-03-01T08:50:00+01:00da piero-stefani
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