195 – Padre e figli (darwiniani) (09.03.08)

Il pensiero delle settimana, n. 195

 

Vi è un storia rabbinica che molti oggi amano giustamente ripetere. Un passo del Talmud (b. Bava Metzia, 59b), che prende lo spunto dalla discussione di un brano legale connesso a una questione di  purità. Essa mette in scena il confronto tra un maestro carismatico, Rabbi Eliezer, e un altro saggio, Rabbi Jehoshua, capofila di coloro secondo cui le decisioni legali vanno assunte a maggioranza  tra i membri di un’accademia rabbinica. Il primo maestro si appella a una serie di segni miracolistici  e, alla fine,  ha dalla sua persino il sostegno che gli viene da una voce celeste. Gli altri rabbi restano però saldi, sostenendo che né i portenti, né le voci celesti hanno qualcosa a che fare con le decisioni relative ai precetti. A proposito della Torà il Deuternomomio (30,12 ) afferma infatti «non è in cielo», vale a dire essa è ormai affidata agli uomini; anzi è essa stessa a prescrivere i criteri secondo cui bisogna decidere a maggioranza (cfr. l’interpretazione rabbinica di Es 23,2). L’episodio non finisce qui. Esso prosegue narrando che un altro maestro Rabbi Nathan incontrò il profeta Elia a cui chiese cosa mai avesse detto Dio quando fu costretto a prendere atto che il suo parere, espresso dalla voce dal cielo, fu respinto. Il profeta riferì che il Signore sorrise e disse: «I mie figli mi hanno vinto, i miei figli mi hanno vinto».

Per un padre, consapevole del proprio ruolo, non c’è gratificazione maggiore del prendere atto che i propri figli sono cresciuti fino al punto da tenere testa al proprio genitore non già per avversarlo ma per fare tesoro di quanto da lui appreso. Tra chi ama ripetere l’aneddoto rabbinico vi è Amos Luzzatto (conosciuto dai più per essere stato presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane). Per lui, come per tanti altri, il brano attesta in modo esemplare l’autentico spirito della ricerca ebraica sulla parola data da Dio ai propri figli. Essa è fedele solo se si è emancipata da un senso di autorità impropria e dimostra la  sua  vocazione a servire Dio scrutando, con amore e intelligenza, la parola da lui donata. Quanto vale per il libro della Scrittura può essere esteso ad altri campi. Michele Luzzatto, figlio di Amos,  in un breve testo venato di arguzie, Preghiera darwiniana (Raffaello Cortina, Milano 2008), applica (pur non citando questo passo talmudico) la stessa procedura al «libro della natura». Né può sfuggire il fatto  che il volumetto sia stato dedicato da Michele a suo figlio, ancora bambino, «che mi ha già superato». Da quelle pagine risulta un Charles Darwin agonico paragonato a Giacobbe e Giobbe nel suo contenzioso aperto con Dio a partire da un lettuccio in cui la sua giovanissima figlia Annie stava morendo di tubercolosi.

La chiusa di Giobbe ha creato (e crea) in molti lettori problemi interpretativi. Qualunque sia la piega che si vuole dare al senso espresso in questa fine, due  punti restano saldi: primo, Giobbe è approvato mentre sono riprovati i suoi devoti amici difensori d’ufficio di un Dio a cui non è mai lecito chiedere ragione del suo operato (vale a dire un Dio che non può mai diventare un Tu); secondo, il Signore alla fine si manifesta rivolgendo la propria parola al suo contestatore. Così facendo egli dimostra che le sue opere, prive di parole, non danno ragione di tutto. Né le Pleiadi, né gli ippopotami e né i coccodrilli (cfr. Gb 38,31; 40,15; 41,26) conducono, da soli, a incontrare un Signore che lascia soffrire i giusti e gli innocenti. A rendere accostabili tra loro il Dio creatore e la sofferenza umana è soltanto il manifestarsi di Dio rivolto a colui che sta nella polvere e nella cenere (cfr. Gb   42,6).

Dal mondo antico sono giunti a noi due modelli forti per interpretare la natura: uno lo chiameremmo aristotelico, l’altro gnostico. Il primo classifica, ordina, scopre nella natura i generi e le specie, dimostra (come afferma il «maestro di color che sanno»)  che nel mondo non vi è nulla che non meriti di essere indagato, neppure i lombrichi. L’altro vede l’orrore della violenza di esseri viventi che si divorano l’un l’altro, osserva la gazzella stritolata dalle ganasce del leone e (come disse Schopenhauer) capisce che non c’è confronto tra il dolore della prima e la soddisfazione del secondo. Darwin, in un certo senso, si presenta come erede di entrambe le tradizioni. Da un lato in lui resta ferma l’idea di classificare, ordinare, scrutare, chiedere ragione di ogni più piccolo e, apparentemente, insignificante particolare presente nel mondo naturale; dall’altro egli cerca un modo per potersi confrontare con l’immensa quantità di dolore che impregna l’esistenza di ciascun vivente. Egli porta a compimento il tentativo trovando nella natura stessa una risposta la quale si presenterebbe, invece, come un immenso e insolubile punto interrogativo se fosse rivolta a un Dio creatore. Per condurre in porto l’operazione occorre che le specie non siano ferme nella loro immota perfezione; al contrario, esse devono evolversi in uno sforzo perenne che dia ragione di una universale fatica di vivere che forma il tessuto stesso dell’esistenza di ogni essere che nasce e muore sulla terra. Darwin è un Giobbe a cui Dio non ha parlato neppure da ultimo. È colui che ha davanti a sé un libro della natura che non è più in cielo: egli lo legge e lo interpreta per quel che esso contiene, nulla aggiungendo e nulla togliendo. Darwin sfida Dio e lo vince perché gli toglie dalla mani il problema del male che è, nel contempo, la massima obiezione nei confronti del divino e la testimonianza del supremo bisogno che gli uomini hanno del loro Signore.

«Nessuno può negare che nel mondo vi sia molta sofferenza. Molti hanno voluto spiegarla, per l’uomo, considerandola necessaria al suo perfezionamento morale. Ma il numero degli uomini è niente al confronto con tutti gli altri esseri dotati di sensibilità, i quali spesso soffrono molto, senza alcun perfezionamento morale. Per la nostra mente limitata un essere potente e sapiente come un Dio capace di creare l’universo deve essere onnipotente e onnisciente; e sarebbe addirittura rivoltante per noi supporre che la benevolenza non sia anch’essa infinita; infatti, quale potrebbe essere il vantaggio di far soffrire milioni di animali inferiori per un tempo praticamente illimitato? Questo antichissimo argomento, che si vale del dolore per negare l’esistenza di una causa prima dotata di intelletto, mi sembra molto valido; mentre, come è stato giustamente notato, la presenza di tanto dolore concorda bene con l’opinione che tutti gli esseri viventi si siano sviluppati attraverso la variazione e la selezione naturale» (C. Darwin, Autobiografia).

Di fronte all’interrogativo sollevato dall’insostenibile confronto tra l’ordine di questo mondo e la presenza di un Dio creatore buono e onnipotente si aprono due strade: si può scegliere, seguendo Spinoza, di far coincidere Dio con la Natura (soluzione verso cui sembra propendere Michele Luzzatto), o ci si può orientare (come suggerito da Giulio Giorello nella prefazione) verso l’agnosticismo proprio dell’ultimo Darwin: «Non è mia pretesa far luce su questi astrusi problemi. Il mistero del principio dell’Universo è insolubile per noi, e perciò, per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico». Tertium non datur? Per certi versi sì, per altri no. Tuttavia quest’ultima opzione può albergare solo nel cuore di chi sa che si può parlare di creazione unicamente collegandola agli altri due estremi, rivelazione e redenzione, del grande arco che lega Dio al mondo.  Soltanto il mondo redento è stato davvero creato dal Dio clemente e misericordioso, lento all’ira e grande nell’amore. Una parola «mitica» riferita assai più all’avvenire di Dio che all’oggi o a un remotissimo ieri.

Piero Stefani

 

 

 

195 – Padre e figli (darwiniani) (09.03.08)ultima modifica: 2008-03-08T08:45:00+01:00da piero-stefani
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