193 – Indifferenza (24.02.08)

Il pensiero della settimana, n. 193

 

Era una sera né calda, né fredda, né umida, né secca. Quell’inverno era all’insegna della mediocrità. Quando alle sette di sera uscì dalla conferenza il buio era fitto. Nessuna sorpresa. Quel che lo stupì fu di trovarsi ben presto solo, soletto. Pur arrivando tardi, se si fosse affrettato Andrea avrebbe anche potuto rincasare. La mattina dopo avrebbe potuto lavorare: come sempre era in affanno per quanto doveva scrivere. Alcuni suoi colleghi convivevano tranquillamente con questa situazione. Lui però non si era ancora abituato a vivere, con indifferenza, le dilazioni. Pur avendo sperimentato più volte che i suoi ritardi erano anticipi rispetto a molte altre consegne non riusciva a non avvertire qualche disagio quando non rispettava le scadenze. Aveva scartato però l’ipotesi del rientro notturno: gli sembrava scortese rifiutare l’invito a cena di quella che si era autopresentata come la più prestigiosa istituzione culturale della città. Non ne conosceva i dirigenti e gli pareva poco gentile svignarsela. Aveva dunque accettato la proposta di pernottare.

   Appena uscito sulla strada non fece in tempo a odorare il clima mediocre di cui si è detto che si sentì dire: «Vada in albergo, tutto pagato: cena, pernottamento, prima colazione». Si trovò così sulla strada senza compagnia. La prospettiva non lo turbò. Si propose di cenare rapidamente; si era al nord e si poteva mangiare presto e poi sarebbe uscito e avrebbe girato per gli angoli meno familiari della città: il centro era piccolo ma qualcosa da scoprire c’è sempre. Non bisognava lasciarsi scappare l’occasione di tirare un po’ il fiato gironzolando senza fretta.

   Si comportò come si era proposto; alle otto e mezza lambiva già gli spalti del Castello del Buon Consiglio. Senza sussulti, in un senso o in un altro, vide i segni memoriali di Cesare Battisti. La sua reazione si conformava al tempo atmosferico: né passione, né sdegno, piuttosto indifferenza.

   Entrò nel cuore antico della città. Quiete assoluta. Si apriva qualche cortile deserto. Gli alberi fermi erano diventati accoglienti dormitori per passerotti. Per contare i passanti le dita di una mano erano in avanzo. Passo dopo passo si trovò davanti alla facciata finto gotica della Chiesa di S. Pietro. Non meritava particolare attenzione. Poi si voltò e lo vide.

   Sapeva che nel corso del Ventennio anche la pancia di Trento aveva condiviso la sorte di molte altre città subendo uno sventramento. Erano nate così la galleria Legionari Trentini e la piazza immancabilmente intitolata a Cesare Battisti. Non era esaltante, ma non c’era ugualmente da segnalare nulla di particolare. Altro fu l’impatto per l’edificio che si para direttamente davanti alla facciata della chiesa. Appena al di sopra dell’imbocco della galleria c’è una intera parete a mosaico, chiusa in basso da quattro oblò che fanno venire in mente delle bocche di mortaio. Sul muro giganteggia una figura femminile. Ai suoi piedi vi è questa scritta: «Il popolo italiano ha fondato con il suo sangue l’impero, lo feconderà con il suo lavoro, lo difenderà contro chiunque con le sue armi». Segue un breve tratto di mosaico da cui sono state tolte le tessere. Non è difficile capire cosa c’era scritto. L’autore della frase poteva  essere solo lui: la firma che esaltava gli animi quando fu composto il mosaico. «Il retaggio di Mussolini – pensò Andrea –  è un peso irrisolto per la storia italiana la quale, al riguardo, partì con il più sbagliato tra tutti i piedi con lo scempio di piazzale Loreto. A essere messo a testa in giù, allora, non fu solo il duce, fu anche un senso di giustizia capace di marcare un salto qualitativo rispetto alla barbarie fascista. Qui un nome  è stato abraso. Dopo molti decenni anche la fiamma tricolore della Repubblica Sociale Italiana è stata infine spenta nel nucleo maggioritario dei suoi posteredi. La questione postfascista si è conclusa nella Canossa di Arcore».

Andrea continuava ogni tanto a pensare, senza entusiasmo, alla politica soltanto perché l’antipolitica non gli pareva esente da nessuno dei difetti della prima ed era ancor meno propositiva dell’altra. La metamorfosi dell’on. Fini, nato fascista e diventato ora membro del Partito popolare europeo, non riuscì però a distrarlo dal mosaico.

   L’ipocrisia della scelta dei tardi censori poteva giustificarsi solo a fronte dell’indifferenza di coloro che ogni giorno imboccano la galleria o passano davanti alla facciata di S. Pietro. Se si legge la scritta, il fatto che sia stato  soppresso solo il nome diviene addirittura un’aggravante. Se lo si voleva presentare come testimonianza storica tutto andava mantenuto; se si desiderava indicare un ripudio, andava tolta via almeno l’intera scritta. La scelta di renderla pseudoanonima può giustificarsi solo facendo conto su occhi che non guardano quello che vedono. In seguito Andrea avrebbe avuto la conferma: gli abitanti della città non ci facevano più caso. Non la accolse come constatazione  rassicurante.

   Andrea penso: «il tempo renderà la scritta sempre meno coinvolgente; essa passerà nel novero delle curiosità storiche per chi la leggerà e confermerà la placida indifferenza dei molti che non la vedranno affatto. Tuttavia nessuno compenserà l’occasione perduta quando quella scritta poteva e doveva essere abrasa per sempre. Sarebbe stata una richiesta eccessiva sostituirla con l’elenco dei non pochi e atroci orrori compiuti dal gas e dai bombardamenti a cui fece ricorso l’esercito italiano in Etiopia o dei campi di concentramento aperti in Libia, ma non sarebbe stato troppo chiedere che i nostri compatrioti uscissero dall’autoassolutorio falso mito che vuole che gli italiani siano sempre  brava gente».

Più elaborava questi pensieri più Andrea sentiva di andare in rotta di collisione con quella città così perbene. Nel frattempo aveva imboccato la galleria, attraversato la piazza e si era immesso per vie più antiche con case dai grossi muri e finestre fortemente strombate. Non ci guardava però più di tanto. Lui, osservatore in genere così acuto, era insolitamente distratto. La faccenda dell’impero continuava a irritarlo. Esagerando, stava assumendo a poco a poco quella scritta come simbolo dell’incapacità italica di fare davvero i conti con la propria storia: «Quelle che avrebbero dovuto essere le grandi rigenerazioni hanno dato frutti stentati se non tossici». Ripensò agli inizi degli anni Novanta quando in Italia era stata definitivamente sezionata la balena bianca democristiana, ma l’operazione chirurgica moralizzatrice di ‘mani pulite’ si è, in definitiva, trasformata, paradosso italico, nel brodo di cultura della attuale centralità aziendal-politica del cav. Silvio B.

Passo dopo passo il suo stato d’animo diventava sempre più turbato. Tuttavia era destino che la serata non si sarebbe chiusa su questa lunghezza d’onda. Andrea si trovò in via Malpaga. In un angolo sorgeva un vecchio, poderoso edificio di stile alpino, deturpato in basso da una boutique post moderna. Guardando più in alto attraverso le finestre si vedevano affreschi ottocenteschi illuminati da una luce diffusa. Soprattutto da quella grande casa uscivano canti, suoni robusti eppure armoniosi. La targa sulla porta rivelava che era la sede del coro So-Sat. Evidentemente era serata di prove. I canti di montagna che si diffondevano per la strada silente ebbero la forza persuasiva di riconciliare Andrea con la città. Riecheggiava un fondo ancora non corroso. Sarebbe stato troppo chiedere ai frammenti di canzoni  di farlo riappacificare con la storia e le cronache italiane: i balsami lenitivi non guariscono le ferite, tuttavia rendono meno penetrante il dolore. È già qualcosa.

Piero Stefani

 

 

193 – Indifferenza (24.02.08)ultima modifica: 2008-02-23T08:55:00+01:00da piero-stefani
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