182 – La grande speranza (09.12.07)

Il pensiero della settimana,  n. 182

 

Nella sua seconda enciclica Spe salvi (cfr. Rm 8,24) a Benedetto XVI è riuscito il virtuosismo di scrivere un testo sulla speranza senza nominare mai le grandi invocazioni della venuta del Signore che, a partire dal  Nuovo Testamento,  danno voce all’attesa dei credenti. Vano sarebbe aspettarsi frasi come «Vieni Signore Gesù» (parola conclusiva dell’intera Scrittura, Ap 22,20);  «Maranà tha; vieni o Signore» (1 Cor 16,22). Non vi è spazio neppure per la formula liturgica (forse colpevolmente postconciliare): «annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione in attesa della tua venuta».  Questa assenza ha luogo per la semplice ragione che nelle   parole di papa Ratzinger non si dà alcuna attesa di una realtà salvifica che viene a noi.  In questa lettera non vi è spazio l’avvenire. Tutto quanto doveva giungere è già apparso. La speranza infatti coincide con la fede (cfr. n. 2).  L’essere salvi in speranza, lungi dal comportare un anelare a un compimento ancora da giungere, è espressione di una redenzione già avvenuta che si fa sostanza in noi (cfr. nn. 1.7). Non a caso la parte conclusiva di Spe salvi chiosa la dimensione del Giudizio (inteso come ratifica e compensazione di quanto è già stato), guardandosi bene dal trasmettere l’originaria speranza dei credenti nell’adozione a figli e nella redenzione dei nostri corpi (cfr. Rm 8, 23).

Lo stinto pallore dell’enciclica diviene, suo malgrado, un invito a riprendere in mano e a far entrare nel cuore le grandi pagine bibliche che parlano dell’av-venire. Tra esse vi sono i versi con cui si apre il penultimo capitolo dell’Apocalisse: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima se ne sono andati (apēlthon)  e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-3).

Il novum nell’Apocalisse è detto attraverso una continua riscrittura di quanto già c’era. Occorre tener fermi entrambi i punti. I riferimenti non sono mai delle vere e proprie citazioni; sono riproposizioni, intrecci, riletture. Per dire il nuovo si impiegano parole antiche. Questa  peculiarità dà un spessore allo stilema, proprio del genere apocalittico, di ricorrere a un verbo al passato («vidi») per dire una realtà ancora da venire. Il veggente osserva quanto avverrà e lo descrive proponendo cose nuove e cose vecchie (cfr. Mt 13,52).

L’interprete dell’Apocalisse è chiamato ad aderire a questo tipo di procedere. Il lettore, quando comprende che l’ultimo libro della Bibbia presenta realtà nuove ricorrendo e a un tempo mutando parole antiche, capisce che la traccia meno labile da seguire per addentrarsi, con frutto, in un testo  simbolico e visionario è la variazione. Il messaggio nuovo è espresso riscrivendo frasi precedenti.

«Ecco io creo un cielo nuovo e una terra nuova e non si ricorderanno più le cose precedenti e non saliranno più al cuore». Il versetto del rotolo di Isaia sembra voler esprimere un novum che ha la pretesa di essere compiutamente tale. Qui si vuole affermare una radicale rottura con il passato. Lo dice la scelta verbale; in essa vi è un creare (barà) che è proprio e solo di Dio e  vi è un non ricordare esteso anche agli uomini. È qui detta la pretesa di essere liberi dal peso del passato. La nuova creazione comporta un oblio salvifico. Labile è il legame tra quanto è stato e quanto sarà.  In Isaia non si è perciò all’altezza del paradosso, inscritto già nella nostra esistenza terrena,  in base al quale il passato è per definizione quanto non c’è più: per questo non lo si può distruggere. Nessuno può  annientare in modo definitivo il passato, si demolisce infatti quel che c’è, non quanto manca. Non è dato uccidere un morto. Si può assassinare Banco, non il suo spettro. Per questo il libro di Isaia  è  costretto, anche nel contesto di  un nuovo assoluto,  a parlare il linguaggio della rimozione: «non si ricorderanno… non saliranno più al cuore».

L’Apocalisse  riprende e muta. Un nuovo cielo e una nuova terra ci sono  perché il cielo e la terra di prima se ne sono andati e il mare non c’è più. È come se si dissolvesse una cortina di nebbia. Nel versetto non compare il verbo creare. Il particolare decisivo per comprendere questa aggiunta sta nel fatto  che il mare non c’è più.  Dalle profondità del tempo mitico, dal Tiamat babilonese (cfr. Gb 7,12), il mare è simbolo del caos e del negativo: se non lo si contiene erompe e distrugge. Esso è anche  il luogo da cui esce la prima e più terribile bestia (Ap 13,1). La nova creazione si risolve tutta nella scomparsa del male. Il cielo e la terra si sono fatti nuovi perché il mare non c’è più. Eliminato il male tutto il mondo diventa nuovo; i nostri occhi non hanno ancora mai visto una realtà così.  Quando le tenebre si diradano e irrompe la luce la realtà si fa tutta diversa anche se nulla è creato da capo. Alla fine non si crea la vita, si fa scomparire la morte. Questo novum dice, per contrasto, l’attuale potenza del male  che corrode, dall’interno, il nostro mondo.

L’inesistenza del verbo creare si congiunge al fatto che la nuova Gerusalemme scenda dal cielo. Lassù essa già esiste (cfr. Gal 4,26).  Quanto la qualifica è non il suo venire all’essere, bensì la sua discesa. Il proprio del messaggio dell’Apocalisse è che il nuovo sia tale nel suo scendere, nel suo venire a noi: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio con loro”» (Ap 21,2; cfr. Is 7,14). «Un nuovo cielo e una nuova terra»: la successione è detta in questo modo perché è il secondo termine a essere chiamato ad accogliere il primo. La meta finale è la dimora di Dio con gli uomini, non l’abitare degli uomini presso i cieli di Dio. Qui la speranza non è affermata attraverso la più antica formulazione di Paolo che parla di un rapimento verso il Signore che viene sulle nubi del cielo (1Ts 4,17). Si proclama piuttosto una discesa che preannuncia le nozze. La nuova Gerusalemme  è la sposa e l’Agnello è lo sposo (Ap 21,9); ma egli è tale perché è l’Emmanuele, la dimora di Dio tra gli uomini. Il nuovo culmina nello scendere di quanto era presso Dio. Il ripiegamento del cielo verso la terra è l’atto definitivo, è la celebrazione ultima dell’umanità di Dio.

«E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono andate via  (ta prōta apēlthon)» (Ap 21,4). Al di sotto di queste parole vi è ancora una volta il libro di Isaia, ma anche qui, oltre alla ripresa, vi è la variazione: «Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande per tutti i popoli […] Egli  strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli […] Inghiottirà (radice bl‘)  la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25,7).  Nel contesto del banchetto finale colei che tutti inghiotte sarà a sua volta inghiottita. Scomparsa la morte, saranno asciugate le lacrime. Il secondo atto sembra conseguire dal primo. Nell’Apocalisse di Giovanni è il contrario. Innanzitutto viene asciugata ogni lacrima dagli occhi; poi non ci sarà più morte. La priorità di Dio sta nel consolare:  da quel gesto sommo e ultimo conseguirà il venir meno della morte. Alla salvezza si arriva piangenti. La storia giunge alla propria fine con gli occhi umidi. Le lacrime sono il nostro contributo alla consolazione di Dio. Il piangere fa parte del nostro cooperare alla salvezza. Occorre prendersi cura di quel pianto. Se la morte fosse inghiottita prima che il Signore si faccia carico del pianto umano ci potrebbe essere solo l’eliminazione del passato e non già il suo riscatto. Le cose di prima andranno via quando Dio asciugherà per sempre le nostre lacrime.

Piero Stefani

182 – La grande speranza (09.12.07)ultima modifica: 2007-12-08T09:20:00+01:00da piero-stefani
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