183 – I templi e i fichi d’India (16.12.07)

Il pensiero della settimana, n. 183

 

Simone amava i monumenti che portavano impressi i segni del trascorrere affannoso del tempo; insomma gli piacevano le chiese o i palazzi che erano come delle piccole città. Un agglomerato urbano è una sincronia diacronica, una stratificazione in cui esistono, uno accanto all’altro, edifici di epoche diverse. Passeggiando tra la gente si scorgono bimbi, giovani, persone adulte, anziani. Se per la strada si avesse l’avventura di incontrare solo ultraottantenni o, all’opposto, soltanto bambini si sarebbe colpiti da un senso di angoscia.

I puristi gli rinfacciavano di mancare di senso estetico. Il rimprovero gli tornò di nuovo alla mente  quando stava guardando un edificio lungo non più di venticinque metri e alto solo un paio di piani.  Cominciò a osservarlo da sinistra: all’angolo c’era un bar in quel momento chiuso ma, a quanto era dato di immaginare, di livello molto modesto. La saracinesca era scrostata; a fianco vi era un enorme e malandato cassone del condizionatore d’aria. Nella parte alta della facciata l’intonaco cadeva a pezzi; ancora più in alto spuntava dal muro dell’erba mezza secca. La casa aveva  eleganti  linee di fine Ottocento. La vista trasmetteva l’idea di una nobiltà decaduta senza speranza di ripresa. L’impressione era confermata dall’attigua presenza di due saracinesche  anch’esse chiuse – del resto era domenica mattina – sopra le quali c’era un’insegna malmessa che indicava una rivendita di ricambi per auto. Se si spostava lo sguardo appena più a destra, si scorgeva una sezione dello stesso edificio sistemata senza gusto. I muri erano stati ripresi alla buona; non c’erano crepe, ma l’aspetto denunciava un  lavoro fatto in fretta; gli infissi erano ancora sconnessi. A colpire era soprattutto il colore: un giallo violento e insolente, un vero e proprio insulto oculare. Se gli occhi proseguivano la loro corsa verso destra, ci si accorgeva che l’ultima sezione della casa era invece restaurata a regola d’arte. L’architetto aveva dimostrato un gusto squisito. Ogni particolare era stato ripreso, sistemato, tornito. I colori pastello erano accostati con finezza, prevaleva il rosa damascato. «Frammentazione della proprietà privata» – disse fra sé Simone – « Tuttavia questa casa è specchio della società anche per altri aspetti: se guardo i passanti vedo lo stesso guazzabuglio di queste pareti».

In realtà Simone aveva un saldissimo senso estetico: la bellezza gli appariva linguaggio alto e struggente. Il fatto è che, con gli anni, era cresciuta in lui l’attenzione per la storia; inoltre nella sua mente faceva di nuovo capolino la precoce propensione per la politica che aveva caratterizzato la sua età adolescenziale. «La bellezza salverà il mondo». Il detto di Dostoewskij, citato come facile slogan, lo infastidiva. Una volta disse: «Se il motto fosse preso sul serio sarebbe la prova evidente che è ormai troppo tardi per essere salvati: è ora di chiudere bottega, il mondo sta andando a rotoli».

Cercare di capire il reale appariva a Simone una via capace di accogliere la gratuità della bellezza senza respingere a priori la faccia meschina dell’umanità. Aristotele affermò che anche i lombrichi meritano di essere studiati; ciò vale pure per l’alternanza di bello e di  brutto, di nobile e di decaduto, di elegante e di sciatto che caratterizza le nostre città. Anzi, ciò è il presupposto perché lo sdegno, quando occorre,  sia.

Gli edifici compositi racchiudono in loro stessi il senso del tempo e non di rado anche quello del bello. Simone non era attratto dall’artificiosa mescolanza postmoderna degli stili. Nella stratificazione di chiese e palazzi coglieva la pietrificazione dei tempi e ciò a volte risultava ai suoi occhi suprema bellezza. Peraltro era ben consapevole che, in altri casi, l’esito, dal punto di vista estetico, fosse disastroso. È una sfida che, come tutte quelle autentiche, può essere persa o vinta; ma in quest’ultima circostanza il risultato non teme confronti. Detestava invece i restauri in voga decenni fa, bollava soprattutto la loro pretesa di riportare gli edifici a una presunta purezza originaria. L’esito gli pareva astratto e privo di relazione. Lo paragonava a una sensazione provata una sera quando ebbe l’occasione di parlare a più di cento seminaristi-teologi. Vedendo quella truppa composta solo da giovani aspiranti soldati di Cristo, gli venne in mente il finto romanico ripristinato in, una mai esistita, spoglia severità.  «Si è compiuto un taglio violento di relazioni.» – pensò – «Buona  parte di questi giovani, una volta diventati preti, pagherà amaramente questa amputazione. Sarà inevitabile per loro, una volta immessi in una realtà più varia, cercare un, più o meno sublimato, rapporto femminile».

Per tutto quanto si è andati dicendo, Simone non era molto attratto né dai reperti archeologici, né dai monumenti antichi privi di trasformazioni evidenti. Tuttavia quando si trovò nell’agrigentina valle dei templi, da un lato, fu vinto dalla seduzione greca, mentre, sull’altro fronte, la sua propensione all’ibrido patì una cocente sconfitta. Aveva sentito parlare delle mitiche e orride colate di cemento che deturpavano la collina della città che faceva da sfondo a nord ai templi della Concordia,  di Giunone, di Ercole; eppure l’impatto visivo fu peggio del previsto. Osservare fu duro; tentare di comprendere vano.

Contro il cielo che assumeva in fretta i colori del tramonto, gli angoli squadrati delle trabeazioni e le file delle colonne scanalate erano di immota perfezione. La solidità dell’essere lì era divenuta pietra modellata, sovrapposta, collegata in forme e proporzioni. Simone si chiese perché le colonne doriche fossero cilindri e non parallelepipedi; ancor di più, perché fossero scanalate. Osservò le piccole ombre proiettate dai rilievi sul corpo delle colonne. Fu allora che gli sembrò di comprendere perché l’armonia, per renderlo perfetto, doveva accogliere dentro di sé il dissimile. Poi lo sguardo si voltò altrove; fu l’inizio di un nuovo itinerario.

Comminò più in basso dal lato sud. Vi erano reperti di un’antichità meno remota, paleocristiani, bizantini; ma soprattutto vi era la vegetazione: ulivi, mandorli, agavi, piccoli e fitti fiori bianchi. Più di ogni altra pianta prorompevano i fichi d’India. Erano curvilinei, carnosi, bitorzoluti, spinosi. Sotto i templi si estendevano ammassi di grandi padiglioni auricolari verdi con brufoli gialli e rossi e tronchi storti che sembravano ricoperti dalla pelle di un pachiderma. Questi grovigli vegetali si confacevano alle pennellate, sgargianti e dense, di Guttuso,  ma erano, senza scampo, in contrasto con un tempio greco. Simone pensò: «Non ho alcuna idea precisa di quando queste piante siano giunte in Sicilia, ma bastano gli occhi per accorgersi che esse sono giunte dopo l’età classica. Se ci fossero già stati questi vegetali così barocchi, i greci non avrebbero mai potuto costruire in maniera tanto statica e proporzionata; l’immobilità dell’essere sarebbe stata turbata dal tormento dell’inviluppo. I fichi d’India stanno a questo luogo  come le cappelle, gli altari, gli ex voto del Sei o del Settecento stanno a una chiesa romanica; sono innesti tanto violenti quanto fascinosi. La storicizzazione vegetale regge, è un contrasto che stimola l’intelligenza; mentre, se guardo dall’altra parte, l’ammasso cementizio deprime lo spirito.»

Piero Stefani

 

 

 

183 – I templi e i fichi d’India (16.12.07)ultima modifica: 2007-12-15T09:15:00+01:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo