181 – “Chiamati a libertà” (Gal. 5,13)_2 (01.12.07)

Il pensiero della settimana, n. 181

 

 Essere chiamati a libertà esige di imparare giorno dopo giorno a essere liberi  nell’atto di rispondere agli altri e non in quello di dar corso ai propri desideri. Comporta porsi «mediante l’agapē» al servizio gli uni degli altri. Liberati per essere liberi significa imitare l’atto con cui Dio, in Gesù Cristo, si è messo al servizio delle proprie creature. Non essere più schiavi del faraone rappresentato dal proprio inesausto desiderare significa accettare liberamente di servire chi ci sta accanto. Giustamente chi ragiona secondo le categorie di questo mondo, a loro modo davvero stringenti, dirà che tutto ciò è assai più facile da dire che da mettere in pratica. In effetti è del tutto inadeguato contrapporre all’obiezione una smentita sul piano dei principi. Quasi che questi ultimi, da soli, si presentassero come garanti di una presunta superiorità morale. Davanti a questa obiezione esiste una sola replica: chi vive secondo l’agapē trova conferma costante che in quella forma d’esistenza la chiamata alla libertà trova la propria realizzazione. Lo sappiamo anche noi le poche volte nelle quali siamo in grado di chiamare a testimoni i frammenti di opere sorrette dall’amore che in noi si compiono. Tuttavia, nel contempo, la povertà del nostro servizio ci ammonisce a non ritenersi usciti in maniera definitiva dal giogo della carne. Se fosse diversamente le parole di Paolo «purché questa libertà non divenga un pretesto» sarebbero fuori luogo. L’ammonimento invece è del tutto pertinente: così come  reale è l’inganno  di credersi liberi quando non lo si è.

La presa d’atto di una perdurante debolezza anche in coloro che continuano a camminare, da liberati, nel deserto delle mormorazioni, induce Paolo ad aggiungere un ammonimento formulato in tono minore: « Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardatevi almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri». Se non si è all’altezza dell’agapē, si rispettino quanto meno le regole di un positivo rapporto interumano. Peraltro non è raro che, nelle comunità dei credenti, si presenti l’eccelso come sigillo della propria vocazione, mentre, in effetti, non si riesce neppure a mettere in pratica le modeste regole del normale buon comportamento reciproco. L’assillo ecumenico più autentico ricavabile dalla sentenza paolina si trova però soprattutto nel prendere sul serio: «se vi mordete e mangiate a vicenda…». Fin dalle sue origini la vita delle comunità dei credenti è stata insidiata da questa pratica negazione della libertà del servizio reciproco. Non si tratta solo di incoerenza: è qualcosa di molto più grave. Non è solo una controtestimonianza che si dà nei confronti degli altri: è un pericolo mortale per l’esistenza stessa delle Chiese. Il radicale ammonimento ecumenico contenuto nelle parole di Paolo è questo: se continuate a mordervi e divorarvi gli uni con gli altri rischiate di andare incontro a una effettiva distruzione. Le comunità dei credenti in Gesù Cristo devono rendersi conto che questa è una possibilità reale. Nel loro reciproco divorarsi non è in gioco solo la loro credibilità, ne va del senso della loro stessa esistenza. Se non mutano rotta i credenti in Gesù Cristo si votano all’estinzione. L’ecumenismo in questo monito tocca il linguaggio della profezia. Esso giudica il mordersi reciproco come autentico scandalo. Lo fa  non solo perché l’agire in quel modo è contro l’etica, ma anche e soprattutto perché esso costituisce l’antitesi assoluta alla chiamata alla libertà. Divorarsi a vicenda, scomunicarsi reciprocamente è l’antivangelo e la negazione completa della libertà di Cristo. Se questa è la vita delle Chiese la loro esistenza non ha significato. L’ecumenismo avrà dalla sua l’avvenire solo se riesce a instillare nella vita delle comunità dei credenti la consapevolezza del ruolo enorme avuto, nella storia cristiana, dalla prassi di divorarsi a vicenda. Il movimento ecumenico deve convincere (e convincersi) che si tratta di un modo di agire che ha rischiato di privare per sempre il mondo della voce liberante dell’evangelo. La più insidiosa opera della carne non è l’umana debolezza, non è neppure il lungo, non esaltante, elenco di comportamenti negativi propostoci da Paolo: è il servirsi della libertà di Cristo come strumento per  soggiogare gli altri.

La fede che opera con l’amore rende concretissimo il camminare nello Spirito. Esso consiste nell’amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18), vale a dire nel sancire il primato della relazione orizzontale vedendovi una realtà diversa dall’agire nato solo dal cuore umano. Scrive Teodoro di Mopsuestia: Paolo «fece bene a usare ‘opere’della carne perché queste cose sono fatte da noi, ma parlando di Spirito egli scrisse ‘frutti’ perché è mediante la grazia e la cooperazione dello Spirito che otteniamo questi frutti. Soltanto da noi stessi  non possiamo compiere opere di virtù». Pensiero giusto e profondo; tuttavia si può aggiungervi qualcosa. Paolo antepone all’elenco lungo e faticoso delle opere della carne un «sono manifeste», specificazione assente quando si parla del frutto dello Spirito. Il particolare ha un significato più profondo della constatazione  che il «male» fa più  rumore del «bene». Quell’agire secondo la carne ci è noto perché costituisce le nostre vecchie opere, quelle che abbiamo fatte e facciamo, il cui nucleo generativo è riconducibile all’aggressività interumana: «inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie». La novità connessa al camminare nello Spirito porta invece a una continua scoperta  di quanto non conoscevamo prima. Gli esiti delle opere frutto dello Spirito non ci sono ancora del tutto noti perché in essi  sta la piena riconciliazione reciproca, mentre tra noi vi è ancora la divisione. In questa luce si coglie perché, quando passa all’altro fronte, Paolo opti per un singolare parlando di «frutto dello Spirito» (tratto non evidenziato da Teodoro). Alle opere della carne, molteplici e frantumate, si contrappone la corale unità dell’amore reciproco: «agapē, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». Tutto è incentrato sulle relazioni orizzontali e tutto è posto sotto il sigillo dell’amore. L’ agapē non è solo il primo termine di un elenco: è il fondamento di ogni altro comportamento. Si è davanti a un sostantivo singolare perché tutti i successivi termini non sono altro che articolazioni dell’amore. Se non c’è l’agapē non si danno gioia, pace, fedeltà, mitezza. Là dove manca l’amore non si è  nulla (1 Cor 13,2). L’ agapē è l’autentico frutto dello Spirito in cui tutto viene a riassumersi.

Nella vita dei credenti l’insidia massima non sta nel compiere le opere della carne. Esse devastano ma sono anche riconoscibili. Il pericolo più esiziale è di rivestire di carnalità il frutto dello Spirito. Qui nulla è manifesto e tutto diviene dissimulato. Ciò ha luogo quando si parla di amore per consolidare il dominio sugli altri, non su se stessi. L’appello all’ agapē diviene allora un modo per conculcare la libertà in Cristo. Molte volte nel linguaggio delle Chiese il richiamo all’amore è compiuto al fine di restare fermi e non già in vista di un comune procedere: «Se pertanto viviamo nello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito». Le parole dell’agapē sono in tal modo usate per sedare ogni fermento, acquietare ogni slancio, emarginare ogni voce scomoda. Sono strumentalizzate per tenere bloccato in un passato irrigidito quanto andrebbe dischiuso alla speranza. Sono evocate per legittimare un privilegio. In breve divengono il linguaggio dell’autorità, non quello del servizio.

Paolo, nella lettera ai Galati, è molto duro contro i propri avversari credenti, al pari di lui, in Gesù Cristo. L’espressione diventa persino invettiva volgare: «si facciano evirare» (Gal 5,12). La pace frutto dello Spirito non è la rassegnazione, non è il comodo spegnersi di ogni contrasto. L’appellarsi all’amore comporta un cammino di libertà non un’accettazione supina. Siamo stati liberati perché restassimo liberi. Questa condizione si realizza nella responsabilità vicendevole di portare gli uni i pesi degli altri per adempiere così la legge di Cristo (Gal 6,2). Non può quindi esservi spazio per  l’ipocrisia di chi, a motivo della propria posizione di privilegio, scarica sugli altri quanto non assume in proprio. L’invettiva evangelica resta quella di allora e di ora: «legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4; cfr. Gal 6,12-13). Cristo ci ha liberati perché rimanessimo liberi e non perché tornassimo schiavi delle opere della carne, ancor meno di quelle che cercano, vanamente, di rivestirsi con la forza dello Spirito.

 Piero Stefani

181 – “Chiamati a libertà” (Gal. 5,13)_2 (01.12.07)ultima modifica: 2007-12-01T09:25:00+01:00da piero-stefani
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