180 – “Chiamati a libertà” (Gal. 5,13)_1 (25.11.07)

Il pensiero della settimana, n. 180

 

Premessa: in questo numero e nel successivo propongo la meditazione svolta a Chianciano  il 31 luglio scorso nel quadro della 44a Sessione di formazione ecumenica SAE 

 

«Voi, infatti, fratelli, siete stati chiamati a liberà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante l’amore siate al servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardatevi almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!

Vi dico, dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne ha infatti desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda cosicché voi non fate quello che vorreste.

Ma se vi fate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono manifeste: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come ho già detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, contro queste cose non c’è legge» (Gal 5,13-23). 

 

«Chiamati a libertà». La libertà di cui parla Paolo è dunque una risposta.  Essa non è un’autodecisione frutto del proprio desiderio, espressione dell’arbitrio di ciascuno. Non è neppure un punto di partenza: è un cammino iniziato da altri  e che sta a noi scegliere di percorrere. La libertà non è neppure una semplice possibilità di rispondere senza coercizione a una proposta che potremmo anche rifiutare. A costruirci liberi è, infatti,  la chiamata stessa.

Di che libertà si tratta? Essa non si manifesta nella tutela di quanto già c’è; ma nell’inoltrasi  in un territorio non ancora solcato. È perciò diversa dalla libertà di cui parlano le grandi dichiarazioni moderne volte a salvaguardare l’inalienabilità dell’esistente. «Noi riteniamo che sono di per sé evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati  uguali, che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, la ricerca della felicità» (Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, 1776). In queste righe si parla del diritto di ricercare la felicità (non di quello alla felicità: chi mai potrebbe garantirlo?). Non si parla invece di «ricerca della libertà». Nella Dichiarazione l’essere liberi  è colto come un punto di partenza; la felicità come una meta da conseguire. Eppure parole poetiche e spirituali sono in grado di parlare anche un altro linguaggio: «libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio, I, 71-72). Cercare la libertà  tocca profondità maggiori di andare in cerca della felicità e lo è proprio nella misura in cui l’essere liberi è parte più costitutiva di noi stessi. Si può rinunciare alla vita in nome della libertà, ma sarebbe inimmaginabile farlo per salvaguardare la propria felicità (mentre non è affatto ipotetico prendere dolorosamente atto che qualcuno si toglie la vita  per un eccesso di infelicità).

Questa libertà verso cui si è chiamati a camminare ha un fondamento. Esso, però,  non poggia né sulla natura, né sul Creatore. È una realtà che si trova alle nostre spalle e che, nello stesso tempo, deve ancora compiersi in noi. Si tratta del detto con cui Paolo apre il quinto capitolo della lettera ai Galati. Esso viene reso in più modi. Di solito suona così: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi…». Tuttavia sarebbe meglio ricorrere a traduzioni più letterali: «Per la libertà Cristo ci liberò: state dunque saldi…»; «nella libertà per la quale Cristo ci liberò: state dunque saldi…»; oppure: «Perché fossimo liberi Cristo ci liberò: state dunque saldi…». L’esortazione a «essere saldi» sembra evocare  una inattesa dimensione statica. Ciò è giustificato dal fatto che qui ci troviamo al punto d’inizio, costituito dall’atto di essere liberati «da». Lo stare saldi equivale a non voltarsi indietro, a respingere la tentazione di volgere la faccia a una rischiosa libertà per rifugiarsi di nuovo in una più rassicurante schiavitù. I figli di Israele non restarono saldi nella libertà quando cedettero alla regressione che inculcò in loro la nostalgia per «i cocomeri di Egitto» (Nm 11,5). Tuttavia, per contrasto, proprio questo processo regressivo mette in luce che, all’origine del cammino della libertà, si trova la coercizione, a volte persino comoda, della schiavitù. Si è chiamati a essere liberi in quanto si è stati liberati dall’oppressione. Questa e non altra è la dinamica dell’esodo. La risposta alla nostalgia della sicurezza è il cammino nel deserto, il Sinai e lo sguardo rivolto verso la terra di Canaan che ci sta ancora davanti.

Il Midash ai Salmi (a Sal 113,2) esprime in modo narrativo il senso più profondo e condiviso assegnato all’esodo dalla tradizione giudaica. Lo fa quando racconta le parole pronunciate da Mosè ed Aronne di fronte all’ultima e più dura piaga. Essi dicono al faraone: «Vuoi che cessi questa piaga? Dì allora: eccovi padroni di voi stessi. Voi non siete servi miei, ma servi del Signore». Uscire dalla morsa del faraone significa diventare «padroni» di se stessi, ma ciò, a propria volta, conduce a dichiararsi «servi del Signore». Aggiunge il Talmud: «Cosa diceva il faraone?…In passato foste servi del faraone, d’ora in poi siete servi del Signore. Fu in quell’ora che si disse: “Alleluia. Lodate servi del Signore” (Sal 113,1)… non servi del faraone» (Talmud babilonese, Pesachim, 5,5,32c).[1] Nella lettera ai Galati Paolo sceglie di trascrivere «in Gesù Cristo» questo stesso itinerario esodico.

«Ci ha liberati…».  In quanto è già avvenuto si trova il fondamento certo della nostra vocazione. Dal suo canto «chiamati a libertà…» è prospettiva aperta sull’avvenire. Sulle prime, si potrebbe evocare ancora una volta la dinamica del «già» e del «non ancora»; forse non sarebbe errato, ma di certo sarebbe riduttivo. Il nesso è più intenso. Siamo chiamati a essere liberi proprio perché Cristo ci ha liberati. Non è semplicemente qualcosa che mi manca: è una realtà che ci impegna. In questa frase si individua non quanto ancora non c’è, ma la realtà che ci consegna in senso pieno all’accettazione del già avvenuto. L’essere saldi implica un camminare. Questa collocazione nega la regressione, ma confuta anche l’immobilità.

 In Gesù Cristo Dio ci chiama a essere liberi. «Chiamati a libertà» è un «passivo divino» (vale a dire occorre individuare in Dio il complemento d’agente sottinteso). Dio ci domanda che la «libertà da…» sia accolta come fondamento per costruire una «libertà per…». Cosa significhi vivere la libertà in questo modo Paolo lo esprime con parole che non temono smentita: essere liberi in Cristo significa fondarsi su quanto ha forza e gagliardia, vale a dire basarsi sulla «fede che opera con l’amore»  (Gal 5,6).

«Siate chiamati a libertà… purché la libertà non sia occasione di darvi alla carne…». Se la libertà non è punto di partenza, tanto meno essa è manifestazione del nostro volere o semplice estrinsecazione dei nostri desideri. «Chiamati» significa rispondere a una voce che non ha origine in noi stessi. Una volta che si è stati liberati «da», è precluso trovare in noi il fondamento e il nucleo della nostra libertà. Le opere della carne contrapposte al frutto dello Spirito esprimono esattamente questa autocentratura. La libertà della carne coincide con la definizione di essere liberi data da Cicerone la quale è tuttora la definizione a cui pensiamo immediatamente: «Qui est libertas? Potestas vivendi ut velis» (Paradoxa stoicorum, 34). Accettare come punto di partenza di un cammino di libertà l’atto di essere stati liberati, comporta smascherare la convinzione stando alla quale essere liberi significa semplicemente poter fare quanto ci pare.

Piero Stefani




[1] Cfr. Manderò il mio Spirito su tutti. L’ecumenismo nella forza dello spirito. Atti della XXXI Sessione di formazione ecumenica organizzata dal Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), La Mendola (Trento) 24 luglio – 1 agosto 1993, Edizione Dehoniane, Roma 1994, pp. 265-266.

180 – “Chiamati a libertà” (Gal. 5,13)_1 (25.11.07)ultima modifica: 2007-11-24T09:30:00+01:00da piero-stefani
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