178 – Il sorriso di Lavoisier (11.11.07)

Il pensiero della settimana, n. 178

 

Era una mattina grigia ma non fredda. Simone aveva dormito in un alberghetto. Era sicuro che il bagno non fosse stato pulito: c’erano ancora in giro carte, mezze saponette, asciugamani spiegazzati. Aveva avuto sospetti anche sulla pulizia delle lenzuola. La sera era rientrato tardi e, invece di fare indagini e scenate, aveva preferito dar ascolto alla sua stanchezza fingendo che tutto fosse immacolato. Quando si era ridestato aveva pensato alla civiltà (o inciviltà) dell’usa e getta. Gli albergatori sognano – pensò – il giorno in cui potranno fare come le carrozze cuccette: federe e lenzuola di carta. Allora saranno esonerati dalla seccatura del lavaggio. Per la biancheria sarebbe una morte rapida: le verrebbe risparmiato il lento logorio del bucato dopo bucato, non passerebbe più per la lunga trafila destinata, senza scampo, a tramutare in stracci lenzuola e asciugamani.

Il pensiero gli si allargò. Gli vennero in mente le pezze che un tempo erano il modo per prolungare la durata degli abiti, segni di una povera tenacia volta a far durare il più possibile un vestito. Oggi il loro uso è per lo più metaforico: «Metterci una pezza» è espressione ancora attuale. A Simone passò velocemente per la testa la situazione di molti giovani italici. Poi pensò a quell’arte perduta. In senso proprio la gente non sa più compiere rattoppi. Gli venne in  mente lo stato miserevole di molte strade. Gli stradini hanno perduto la capacità di riempire i buchi e livellare l’asfalto. I loro interventi parziali di solito non fanno che rendere ancor più sconnesso il manto stradale. Per avere una pavimentazione decente occorre attendere, con molta pazienza, che entrino all’opera le grandi macchine bituminose. L’unica situazione in cui le pezze sono ancora in auge è trascinare avanti l’esistenza delle istituzioni, ma anche delle vite umane, attraverso interventi su interventi. I medici ormai sono paragonabili agli stradini. Scacciò però il riferimento. Simone ogni tanto si irritava delle proprie associazioni mentali, specie quando si tingevano di frivolezza.

Nel frattempo era uscito e si stava dirigendo presso la basilica del Santo. Quando si trovava a Padova cercava sempre di andarci, non per entrare in chiesa e ancor meno per chiedere grazie a S. Antonio: era affascinato dai chiostri. In particolare il primo, con la sua immensa magnolia. Quel gioco di cupole orientaleggianti, archi acuti e il maestoso edificio vegetale gli pareva una sintesi irripetibile tra Occidente e Bisanzio, tra natura e cultura.

Mentre camminava era accompagnato dall’ombra dell’”usa e getta”. Il flusso delle idee lo portò a riflettere sul Lager. Non era uno storico e men che meno aveva avuto, nella sua esistenza, esperienze paragonabili all’universo concentrazionario. Gli incontri che aveva avuto in sorte di compiere l’avevano però condotto a collocare Auschwitz nell’ambito delle realtà che, “ad ora incerta”, tornavano nella sua mente. Quella mattina l’assalì l’idea che il campo di concentramento fosse stato la realizzazione completa della logica dell’ “usa e getta” applicata agli esseri umani: li si sfrutta, li si esaurisce, li si elimina. Anche là sorse perciò il problema tecnico dello “smaltimento rifiuti”. L’empia espressione gli suonò adeguata. Come trattare i cadaveri fu per i nazisti un problema paragonabile a quello che vale per le nostre discariche: seppellirli in massa, incenerirli? L’inciviltà della distruzione programmata è ossessionata dall’accumulo dei residui. Si getta ma non si annichilisce. Il sorriso ironico di Lavoisier si para di fronte alla società legata all’eccesso di consumo: «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». La legge del padre della chimica moderna non teme smentite. Le società opulente moriranno nelle discariche a meno che non ritrovino una povera via di salvezza nel riciclo; vale a dire, nel riuscire a dare una svolta virtuosa al “tutto si trasforma”. Ma per farlo, pensò, i ritmi dovrebbero essere meno vorticosi.

Appena tratta questa conclusione alzò gli occhi e si trovò davanti alla magnolia: essa aveva riciclato per secoli l’humus della terra. L’aveva assorbito e con pazienza era cresciuta e si era dilatata fino a giungere all’attuale status di cattedrale vegetale. L’enorme pianta gli parve il simbolo della durata. Anche le cupole e gli archi della basilica hanno alle loro spalle secoli e secoli. I mattoni però non crescono, anzi, sia pure con lentezza, si sgretolano. La pianta invece si alimenta e si espande. Vive del lento riciclo di foglie che cadono e rispuntano. I grandi alberi – disse tra sé e sé Simone – non hanno peccato. La loro vita ha ancora la durata dei patriarchi antidiluviani. Da ora in poi chiamerò questa magnolia Matusalemme».

I passi lo condussero verso gli altri chiostri. Giunse al terzo, il più ampio, con i tavoli per i pranzi al sacco. Improvvisa gli venne una stretta al cuore. Anzi, fu una di stilettata. Avvertì un vuoto incolmabile. Anni fa lei era lì. Già anziana, ma ancora capace di dare una testimonianza ineguagliata sul mondo dei Lager: l’ascolto si faceva esperienza e il racconto dell’orrore si trasformava, in virtù di una straordinaria chimica spirituale, in affermazione della dignità umana. Si ricordò di lei seduta e delle persone che le portavano da mangiare ed erano a propria volta alimentate dalla sua parola. Adesso c’era solo vuoto. Il chiostro era deserto.  Simone udì il grido che usciva dalla ferita dell’animo: «Lavoisier hai torto, la morte annichilisce, distrugge non trasforma». Nel contempo percepì però anche una voce più leggera e sottile: «nulla è assicurato, qui non vige la necessità delle leggi chimiche; eppure se la memoria agisce da fermento catalitico anche la mancanza può trasformarsi in altro da sé. L’oblio è il modo in cui i vivi uccidono i morti, ma il ricordo è la maniera in cui li si può ancora far parlare. La dimenticanza è una specie di “usa e getta” spirituale; la memoria è un pio riciclo. Quando l’atto di ricordare si presenta come un puro, immobile conservare, tutto è bloccato; il vuoto è mantenuto ma non diverrà mai l’alambicco nel quale avvengono nuove reazioni. I ricordi vanno condivisi, trasmessi allora diventano come le foglie di ‘Matusalemme’: hanno ancora un domani».

La seconda voce lo consolò ma non del tutto. Simone si accorse perché si dava tanto da fare per tenere desta la memoria di lei. Dietro c’era anche un moto egoistico: mascherare un vuoto. Il suo impegno equivaleva a somministrare una cura palliativa a una perdita. L’istanza, più che altruistica,  era in definitiva egoistica. Il suo stato d’animo subì però un’ulteriore oscillazione. Gli tornò in mente il detto rabbinico che invita a servire Dio anche con l’“inclinazione cattiva”. Si disse: «È egoismo ma posso confidare che si produca una reazione che lo trasformi in qualcos’altro».

Piero Stefani

178 – Il sorriso di Lavoisier (11.11.07)ultima modifica: 2007-11-10T09:43:00+01:00da piero-stefani
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