177 – I due cimiteri (04.11.07)

Il pensiero della settimana, n.  177

 

Premessa: Ripropongo, per due ragioni, un articolo scritto qualche anno fa: a) per le ampie modifiche e gli aggiornamenti apportati; b) per il periodo dell’anno in cui ci troviamo.

 

Da quasi quattrocento anni i luoghi ebraici di Ferrara, pur nelle grandi modifiche avvenute, sono stati caratterizzati dall’asse che va dalla zona dell’ex ghetto al cimitero di via delle Vigne (il piccolo cimitero di via Arianuova – oggi soggetto a discutibili restauri – resta marginale). Questa ubicazione plurisecolare andrà incontro a una ridefinizione con l’ormai approvata creazione del museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah. Dopo il progressivo esaurimento di altri ipotesi, la sede è stata individuata nelle ex carceri di via Piangipane; le quali dovranno essere sottoposte a imponenti opere di ristrutturazione. Allo stato attuale è impossibile prevedere i tempi della sua apertura, comunque,  prima o poi, a Ferrara  si costituirà un terzo polo connotato ebraicamente.  Le città sono realtà vive, la trasformazione fa perciò parte della loro grammatica di fondo. Tuttavia è auspicabile che si sappia leggere gli spazi del passato: per una istituzione destinata a ricordare sarebbe paradossale dimenticare la memoria degli altri luoghi ebraici della città. Va detto che in quest’ottica si sta muovendo chi prospetta un raccordo – invero di non semplice progettazione – tra la sede del futuro museo e l’area del ghetto (e il museo in essa già esistente). Se si entrasse nella logica di una generica memoria della minoranze, potrebbe avere una qualche suggestione ipotizzare un passaggio (agevole in base all’urbanistica)  attraverso l’ex fondaco dei turchi. L’operazione rischierebbe però di compromettere la peculiarità di una memoria dotata di connotazioni non interscambiabili. Rimane anche il problema del riferimento all’altro polo ebraico (situato al lato opposto della città) del cimitero di via delle Vigne.

 In varie città italiane entro un cimitero pubblico vi è una zona destinata alle sepolture  ebraiche. A Ferrara le cose  stanno diversamente in quanto esiste un vasto e autonomo cimitero ebraico. Tuttavia le vicende storiche hanno fatto sì che ci fosse ugualmente una prossimità tra le sepolture ebraiche e quelle dell’altra popolazione. Ciò è dovuto a quello che è tuttora il più grande  riutilizzo di un luogo sacro avvenuto a Ferrara (e a Bologna): la trasformazione della Certosa in cimitero. Questo atto ottocentesco si è tanto sedimentato nella psicologia della città da rendere, di fatto, quasi equivalenti le due espressioni. In effetti quasi ci si stupisce che a qualche non ferrarese la frase ‘andare in Certosa’ possa apparire non equivalente ad ‘andare al cimitero ’.

Questo passaggio da luogo sacro e monastico ad ‘altro’ è avvertito in  modo non particolarmente accentuato. Ciò è imputabile non solo alla ormai lunga distanza temporale che ci separa dalla trasformazione, ma anche al fatto che il ‘camposanto’ stesso è considerato luogo sacro. In realtà la vicenda è più complessa. A comprovarlo non è tanto la, peraltro rara, presenza di tombe che rifiutano in modo esplicito una connotazione religiosa, quanto la constatazione che, a partire dal XIX sec., nell’arte funeraria e nella modalità di visita alle tombe prevale il sentimento, non la sacralità. Come hanno dimostrato molti studi, a iniziare da quelli classici di Philippe Ariès, il culto ottocentesco dei morti fu una reazione alla desacralizzazione illuminista. L’esito di questa controspinta fu il sorgere di un tipo di religiosità memoriale e sentimentale entro cui si fece sempre più sfumata la distinzione tra laici e credenti.

Verrebbe voglia di affermare che, per via cimiteriale, il luogo appartato e monastico in cui risiedevano i certosini è diventato parte della città. Tuttavia, se si è aperti al senso della «vanitas vanitatum», si percepisce la realtà anche in senso opposto: è la Certosa ad aver inglobato in se stessa la città. La città dei morti è dove vanno a finire i vivi: in senso definitivo quando i viventi cessano di essere tali, in modo temporaneo quando vanno a trovare i loro cari che li hanno lasciati (ai primi di novembre il flusso è tuttora imponente tanto da imporre modifiche alla viabilità). In un certo senso è vero che la Certosa-cimitero va letta in se stessa come una specie di città con le sue modifiche, i suoi ampliamenti (nuovi chiostri, nuove ‘periferie’), con il succedersi degli stili monumentali, con l’introduzione di costumi inediti in spazi che in passato li avrebbero respinti (si pensi alla pratica della cremazione e all’apposito settore a essa riservato), con i continui lavori di manutenzione e così via. Tutto ciò indica un’ovvietà: sono sempre i vivi a creare le città dei morti.

Negli ultimi tempi è intervenuta però una modifica. A settembre, dopo anni di lavori, sono stati definitivamente conclusi i bei restauri della chiesa rossettiana di S. Cristoforo.  L’incomparabile collocazione urbanistica dell’edificio e la bellezza dell’interno lasciano intravedere che la chiesa entrerà, a poco a poco, a far parte integrale del percorso turistico cittadino. La virtualità oggi dischiusasi farà sì che un numero crescente di persone percepirà la Certosa come una realtà attigua al cimitero, senza compiere però una completa integrazione tra i due elementi. Quindi «andare in Certosa» evocherà per molti di nuovo un’arte non funeraria. Ci si  recherà sempre più in quel luogo non con i fiori, ma con le macchine fotografiche.

Nonostante il fatto che anche lì siano avvenute modifiche, il cimitero ebraico appare nel complesso meno mobile. Più che una città è paragonabile a un paese diventato troppo vasto per i suoi attuali abitanti. Non è però solo questione di numeri. L’inamovibilità delle sepolture ebraiche definisce diversamente gli spazi. Lì non ci sarà mai un settore dedicato alla cremazione. L’adattabilità del rito cattolico seguito ancora dalla maggioranza delle persone – di fronte alla morte la nostra società laicizzata stenta a individuare riti alternativi – si intreccia invece in maniera più articolata con l’orizzonte della secolarizzazione. Con tutto ciò, neppure nel cimitero ebraico  il tempo dei vivi lascia del tutto immutata la casa dei morti.  Se si entrava in quel luogo una ventina di anni fa, non si trovava quasi nessuno (la tradizione ebraica non invita a una visita frequente alle tombe) e in alcuni settori rovi e rampicanti la facevano da padrone. Ora le cose stanno in modo diverso: a più riprese sono stati fatti pulizia e restauri. I muri sono stati consolidati e gli intrichi di rami eliminati. Ciò è dipeso anche dal fatto che il cimitero è ormai considerato un esempio insigne di ‘bene culturale ebraico’. Come merita la sua straordinaria collocazione, esso è rientrato, a tutti gli effetti, nei percorsi turistici. Non a caso i  visitatori sono invitati a firmare il libro delle presenze (operazione incongrua se ci si recasse al cimitero  per visitare i propri cari defunti).

    All’interno di quest’ambito rientra la questione particolare della tomba di Giorgio Bassani. Collocata in un luogo volutamente defilato e adornata da un discusso intervento scultoreo di Pomodoro, la tomba sta subendo una ridefinizione attraverso la pratica ebraica, divenuta diffusa e fatta propria da molti visitatori, di porre un sasso sopra di essa. Ormai le pietre si contano decine. Con ogni probabilità l’artista non avrebbe mai preventivato che la sua opera, sfacciatamente metallica, sarebbe stata ricondotta, in virtù di una prassi estesasi al di là del previsto, a una petrosità più consona al senso della morte.

Piero Stefani

 

 

177 – I due cimiteri (04.11.07)ultima modifica: 2007-11-03T09:45:00+01:00da piero-stefani
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