176 – La tiepidezza e il pentimento (28.10.07)

Il pensiero della settimana, n. 176

 

Dostoewskij termina il suo romanzo i Demoni con un’appendice incentrata sul colloquio tra Stravoghin e il vescovo Tychon. Il suo centro è occupato dall’angosciosa lettura dei foglietti in cui il protagonista narra di aver  messo in atto ad arte una situazione che portò al suicidio una ragazzina undicenne. Stravoghin fu l’unica persona che vide i preparativi e intuì cosa stesse per avvenire. Poteva fermare il gesto estremo, ma attese e contò il tempo finché tutto fosse compiuto. Anni dopo scrisse la storia su dei fogli a stampa tirati in trecento copie che era in procinto di divulgare e mandare ai giornali. In effetti la fece leggere solo a Tychon e, alla fine, la divulgazione non avvenne mai. All’insegna dell’illusoria, perversa, dinamica secondo la quale chiodo scaccia chiodo sarà piuttosto aperta la porta a un altro delitto.

La chiave ermeneutica del colloquio è data da una citazione dell’Apocalisse. Si tratta della lettera indirizzata alla chiesa di Laodicea, l’ultima e la più celebre della serie di sette rivolte ad altrettante comunità dell’Asia. Vi è scritto:

«Queste cose dice l’Amen. Il testimone fedele veritiero, il principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere, che non sei né gelido né ardente. Magari tu fossi gelido o ardente! Così, poiché sei tiepido e né ardente né gelido, sto per vomitarti dalla mia bocca. Poiché dici: Sono ricco e mi sono arricchito e non manco di nulla. E non sai che sei tu lo sciagurato e misero e pezzente e cieco e nudo. Ti consiglio di comprare da me oro infuocato di fuoco, per arricchirti, e vesti bianche così che tu te ne avvolga e non si manifesti la vergogna della tua nudità, e collirio per ungere i tuoi occhi; sii dunque zelante e pentiti. Ecco sto davanti alla porta e busso: se qualcuno ode la mia voce e apre la porta, entrerò da lui e pranzerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 14-20).

Per il sentire romantico, che rovesciò il senso classico della aurea mediocritas in grigia mediocrità, non vi era nulla di più facile che far propria la superiorità del freddo sul tiepido. In qualunque direzione sia rivolto, un forte sentire è sempre meglio di una insensibilità piatta e pavida. L’ineguagliata capacità di penetrazione psicologica di Dostoewskij si muove però a ben altre profondità e, nel contempo, rivela una sorprendente capacità di comprensione del testo. Il cuore dell’appendice, che non può essere riassunta senza immiserirla, sta nel fugace dischiudersi e nel repentino serrarsi della porta del pentimento. Si è di fronte a una possibilità sfumata. Stravoghin cita un proverbio ebraico stando al quale «la sozzura che viene da te stesso non puzza». Il perno su cui gira la questione non è neppure questo; non sta nel semplice non accorgersi di quanto si è compiuto e neppure nel fingere; il cardine sta nel non saper trarre le conseguenze adeguate dal fatto di essersi accorti di quel che si è compiuto. Da qui nasce una paralisi che va dal morboso compiacimento di sciorinare in pubblico le proprie colpe e le proprie meschinità (dinamica oggi trionfante nei laidi talk show), alla vergogna di ammettere a se stessi di essersi pentiti delle proprie azioni: ci si vergogna del barlume di pentimento che era lì lì per lampeggiare. La tiepidezza  si estrinseca perciò in un camuffato immobilismo.

Dostoewskij, scavando nella psiche moderna, complica e tormenta quanto in nuce c’era già nell’Apocalisse. La Chiesa di Loaodicea è tiepida non perché incapace di grandi beni e di grandi mali, ma perché non è in grado di guardare a se stessa e di rendersi conto di quale sia la sua situazione: «Poiché dici: Sono ricco e mi sono arricchito e non manco di nulla. E non sai che sei tu lo sciagurato e misero e pezzente e cieco e nudo». Una condizione estendibile ad altre Chiese e ad altri tempi. Non vi è tentazione maggiore di credersi ricchi quando non lo si è; in questi casi (come avviene nella vita privata dei falsi ricchi) la rovina è davvero dietro l’angolo. A questa inconsapevolezza viene contrapposta, fin dalla battuta iniziale, la dichiarazione di colui che è qualificato come  l’Amen: «conosco le tue opere».

L’Apocalisse invita a comprare del collirio al fine di accorgersi di essere nudi. Almeno si fosse come gli antici primogenitori i cui occhi si aprirono dopo il peccato cosicché si accorsero subito di essere nudi (Gen 3,7). Da questo sguardo potrà nascere un processo che potrà sfociare nell’essere rivestiti di vesti bianche, esattamente come avvenne  con le tuniche di pelle con le quali il Signore Dio rivestì l’uomo e la donna (Gen 3,21). Perché tutto ciò sia possibile occorre però essere disposti a pagare il prezzo di un autentico pentimento. Se non si è consapevoli di quanto si fa – e il monito è per tutti, non solo per le Chiese di ieri e di oggi – non ci si potrà mai pentire e il vicolo in cui si cammina condurrà  senza scampo a un baratro. Esito analogo è ipotizzabile se si affoga l’embrionale consapevolezza delle proprie colpe nei gorghi del compiacimento o di una vergogna che scambia per debolezza la forza di ammettere di aver sbagliato.

L’immagine cruda dell’essere vomitati dalla bocca del Figlio dell’uomo morto e risorto richiama quella più antica della terra di Israele che rigetta i propri indegni abitanti (Lv 18,24). Si può essere vomitati solo se prima si è contenuti. È un gesto che tocca i vicini, non i lontani. Tuttavia, dopo aver espulso quanto ci alimenta, si è più deboli. Questo vale anche per l’Amen. Per questo, se ha luogo il pentimento, l’Apocalisse propone di rovesciare l’immagine: non si parla più di un cibo espulso con violenza; al contrario ci si riferisce a un umile bussare  e a una richiesta di essere fatto entrare che, se accolta, conduce fino alla condivisione della mensa. In tal modo l’immagine alimentare, prima giocata sul versante del rigetto, ora si capovolge e parla di accoglienza e convivialità.

Piero Stefani

176 – La tiepidezza e il pentimento (28.10.07)ultima modifica: 2007-10-27T09:50:00+02:00da piero-stefani
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