175 – I ponti di Venezia (21.10.07)

Il pensiero della settimana, n. 175.

 

Venezia è una città lenta nel suo ridestarsi. Il camminare impone ritmi diversi dalla frenesia di altre città. Quando gli austriaci scelsero di moltiplicare i ponti e di declassare le vie d’acqua, non negarono canali e imbarcazioni, dischiusero però la possibilità  (sempre più confermatasi) di percorrere a piedi tutto il corpo centrale del ‘grande pesce’ (quale altra città, vista sulla pianta, ha una forma simile?). Per conquistare questo itinerario occorre essere disposti a salire e scendere molti gradini. Le persone anziane, la cui percentuale aumenta di giorno in giorno tra gli abitanti della città, misurano le distanze non in metri, ma in ponti. È meglio fare un po’ di strada in più e un po’ di gradini in meno. Per loro il manufatto, simbolo per eccellenza di collegamento, si trasforma in ostacolo.

Chi non teme di affrontare piccoli ma ripetuti dislivelli è in grado di vagare per ore. L’alternativa più suggestiva è lasciarsi portare dai piedi, dalla vista, dall’udito, dall’olfatto. Il camminare conduce nella selva oscura delle calli, spesso lungo muri da cui escono più vegetali di quanto ci si aspetti. La componente terrestre di Venezia si estrinseca in un rapporto di simbiosi tra pietre e piante, tra muri, alberi, rampicanti, finestre e fiori. Anche se  si va per anse, la diritta via non è mai del tutto smarrita. Ci si perde per un po’ ma poi ci si ritrova sempre. All’improvviso tutto si allarga in un campo o ci si trova di fronte alla laguna. A livello del mare è come  il colle baciato dai raggi del pianeta: un segno di speranza e  di apertura. È vero: ogni tanto infilando un sottoportego ci si trova di fronte a un canale. Quella che appariva la via più agevole non porta a nulla. Non si può proseguire, bisogna tornare sui propri passi. Questa conversione  è un’esperienza più etica che estetica: indica che nella vita si può uscire anche dai vicoli ciechi se si ha il coraggio di voltarsi indietro e di ammettere di aver sbagliato.

Quando si cammina si è consapevoli che ogni edificio, sacro o profano, che si incontra contiene un eccesso di storia. Si sa che per conoscere le vicende della città e dei suoi monumenti bisognerebbe avere più vite dedicate in gran parte alla lettura. Ciò non crea disagio. Lungo le calli  la storia non è il passato, è il presente; perciò ci si può immergere ingenuamente in essa senza accorgersene.

A Venezia le cose ti si offrono, vengono a te. Non si tratta di bellezza. Tutto è così, anche i panini imbottiti esposti in vetrina. Si cammina al loro fianco, un metro ti separa da quelli di destra, poco di più da quello che subito dopo  troverai a sinistra. Anche gli odori si offrono, si tratti delle brioches surgelate riscaldate nei fornetti del bar o del più greve odore di frittura trattenuto dall’aria ovattata. Più di ogni altra cosa  ti giungono  suoni: il fruscio delle ruote dei carrelli, o il loro più secco sobbalzare sui gradini, la ramazza sul selciato, il gorgoglio dell’acqua nelle fontanelle, la scia sonora degli scafi nei canali, il parlare di passanti e negozianti e infine l’eco continua dei proprio passi. Nell’ultimi anni l’universo sonoro veneziano ha subito però un mutamento. Esso ha un nome: telefonini. I cellulari fanno, quasi di continuo, giungere agli orecchi frammenti di discorsi unilaterali. È un incrocio; cammina sia chi parla all’apparecchio sia chi lo ode dappresso. Forse per questo non è spiacevole. In treno, dove si è vincolati al proprio posto, non si può non pensare al cellulare altrui come a un fastidioso talk show portatile che infrange i confini del decoro e del pudore.  A Venezia  è un frammento di un universo sonoro.

Tutto quanto detto avviene se si è in certe zone e in certe ore. In altri orari e in altre aree vi è, come tutti sanno, l’invasione. A volte, però, basta appellarsi al fattore spazio senza far entrare il tempo: solo poche decine di metri separano il tumulto dalla quiete. I turisti visitano solo pochi luoghi deputati. La città non ha più alcuna autosufficienza se non nella fantasia di una grandezza perduta. Circola una battuta: se non ci fosse il ponte che collega la città con Mestre, l’Europa sarebbe un’isola di Venezia. Lo si dice proprio perché tutti in cuor loro sanno che, senza quel budello che  la collega alla terra ferma,  la Serenissima sarebbe isola a se stessa.

Alla fine della sua vita il conte Cini si pentì di aver contribuito a costruire il ponte stradale, sarebbe stato più che sufficiente quello ferroviario. Oggi il suo cruccio sarebbe ancora maggiore. L’inedito turismo ‘mordi e fuggi’ proveniente dai paesi dell’Europa dell’Est ha incrementato sempre più pullman che riversano turisti a piazzale  Roma.  Il contenitore si è  fatto ormai angusto. Di questo Venezia vive, di questo forse morirà. Al giorno d’oggi, se fosse ancora in vita, il conte Cini avrebbe forse trovato l’ardire di ripetere quello che, per tutt’altre ragioni e su altro manufatto, fecero i veneziani nel lontano 1849: «sul ponte sventola bandiera bianca».

Piero Stefani

 

175 – I ponti di Venezia (21.10.07)ultima modifica: 2007-10-20T09:55:00+02:00da piero-stefani
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