174 – Vecchi film (14.10.07)

Il pensiero della settimana, n. 174

 

I più autentici film storici sono quelli che non hanno mai avuto la pretesa di esserlo.

Non vi devono comparire cappe e spade, armature ed elmi, pepli e toghe. A renderli tali è semplicemente il tempo che è passato dalla loro uscita: cinquanta, sessanta, settant’anni. Quando si proiettavano nelle sale erano ambientati nel presente, ora sono testimonianze del passato. Tuttavia, anche in questo caso, risultano spesso ancor più rivelatori i film che non si proponevano di descrivere la società del tempo. Ovviamente l’epopea del neorealismo italiano è dotata tuttora di un grande valore. Ai nostri giorni molte pellicole di quel filone sono, a un tempo, arte e documento storico. A volte, però, la distanza emerge in modo non meno pregnante pure in opere prive di ogni intento realistico.

Un bell’esempio in proposito è fornito da un film italo-francese del 1950  intitolato È più facile che un cammello… (regia di Luigi Zampa). Il protagonista (interpretato da Jean Gabin) è un industriale calzaturiero senza scrupoli, divenuto ricco con speculazioni e sfruttamento degli operai. È sposato con bimbi, ma non disdegna avere l’amante. L’imprenditore muore travolto da un camion e viene avviato verso l’inferno. Riesce però ad avere una dilazione di dodici ore in cui torna a vivere; in quel lasso di tempo deve riparare il male fatto. Nell’aldilà  ha appreso che la persona che più lo odia è uno sconosciuto, tale Santini. Ritornato in vita, sconcertando i familiari, modifica tutte le proprie abitudini. Soprattutto però si impegna  a scoprire chi fosse il suo misterioso odiatore.

Alla fine apprende che si tratta di un usciere rifiutatosi di pagare la riparazione di un tacco del suo unico paio di scarpe, dato che la tariffa era aumentata a causa delle speculazioni dell’industriale. Giunto in ritardo in ufficio con un piede avvolto negli stracci, Santini incorre in una serie di infortuni. A fine giornata si trova licenziato e disperato. Allora traccia sul muro della fabbrica una scritta contro il suo nemico e si butta nel Tevere. Salvato, viene raggiunto dal ricco in ospedale. Da allora è tutta una corsa per renderlo felice. La cosa non è facile perché l’usciere, oltre a essere pieno di livore, è anche un egoista incallito. Egli vive con la giovane nipote, innamorata di un altrettanto giovane stagnino. Lo zio però, oltre a una villa, vuole pure che la nipote sposi un nobile. La cosa sembra avviarsi in questa direzione; quando, proprio allo scadere  del tempo a sua disposizione, il ricco, pur credendo che il suo gesto lo avrebbe dannato per sempre,  decide di seguire il proprio impulso: scaccia Santini e dona tutto ai due ragazzi che così potranno sposarsi ed essere felici. Come era da prevedere, quest’ultimo gesto lo salva e lo fa entrare in paradiso. Forzando il discorso si potrebbe dire che qui risuona una lontana eco  del detto evangelico secondo cui, per salvare la propria vita, bisogna perderla mentre esplicito nel film è il monito  morale di rendersi consapevoli  di quali possano essere gli esiti delle proprie azioni anche nei riguardi degli sconosciuti.

Una prima considerazione da farsi riguarda il titolo: era dato per scontato che tutti lo comprendessero. In un paese in cui il vangelo non veniva letto – lo dimostra il fatto che l’industriale, per comportarsi bene, lo cerca ma nella sua casa non c’è – tutti conoscevano il detto di Gesù stando al quale «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt  19,24). Ai nostri tempi non sarebbe più così: l’espressione rimarrebbe incomprensibile alla maggior parte degli spettatori. Molti ipotizzerebbero scene legate al deserto. Più in generale tutti i film di quegli anni mostrano quanto sia stata grande la successiva secolarizzazione  avvenuta nei costumi  e ancor più della forma mentis. Nell’Italia del tempo l’humus del vissuto era cattolico anche per chi non era praticante. Il clero, anche se dipinto con tratti grotteschi, era comunemente visto come un mediatore affidabile con l’aldilà. La confessione era una pratica riconosciuta da tutti, anche da chi non la frequentava (l’industriale chiede di confessarsi dopo aver affermato che non lo faceva più da vent’anni. Frase che, allora, suonava scandalosa). L’immagine del «dopo morte»  coincideva per tutti, anche per chi non ci credeva, con quella proposta dal catechismo. Per averne una prova, ben più drammatica e reale, basta leggere le lettere dei condannati a morte durante la Resistenza. In sintesi, le parole che campeggiano tuttora con enorme evidenza sulla facciata della scuola elementare di Cetona, «Famiglia, patria, religione», erano universalmente riconoscibili anche quando non venivano assunte in proprio.

Quel mondo è definitivamente scomparso; per questo i vecchi film sono storici.

Le stesse considerazioni valgono per i due ragazzi beneficiati dall’industriale che non dimostrano più di vent’anni.  Lui fa lo stagnino; di lei non si dice che lavori.  Il loro sogno è sposarsi. I matrimoni venivano celebrati a quell’età e non era necessario che lavorassero entrambi. Non si pensava a convivenze, a relazioni brevi. Per tutti l’istituzione che consacrava un amore,  sperimentato solo per pochi mesi o al più per qualche breve anno, si concretizzava nel «portare la sposa all’altare». Per alcuni giorni le dichiarazione del ministro Padoa Schioppa hanno riempito i giornali della parola «bamboccioni». Sui quotidiani tutto è rapidamente passato; entro le mura domestiche la presenza di giovani adulti in attesa di una sempre dilazionata fuoriuscita non perde invece di attualità.

Le statistiche dicono che in Italia, in riferimento a una grande città, il 62 % delle persone tra i 20 e i 35 anni vive ancora con i genitori, mentre solo il 22,3% convive con un coniuge o partner. Secondo le dichiarazioni degli interessati questa situazione è dovuta soprattutto a fattori economici (per es. solo il 2,3% afferma che una delle condizioni per andare a vivere da soli è il consenso dei genitori). Essa però è legata anche (e forse soprattutto) a una incapacità di osare scelte nette e irreversibili in un’età in cui ci si sente impreparati per farlo. Ciò è tanto più vero se si mette in campo la prospettiva di diventare genitori. Quello che un tempo, grazie all’uniformità sociale e culturale, era considerato un esito ovvio, oggi appare sempre più un rischio. La risposta a questa situazione non è uno sterile vagheggiamento di modelli archiviati per sempre. Bisogna piuttosto impegnarsi a liberare da sovraincrostazioni e paure il nocciolo di verità contenuto in questa insicurezza. Precarietà,  mobilità, incertezze sono note reali dell’esistenza umana. Occorre dare loro spessore, non cercare vanamente di ricondurle  nell’alveo di modelli  tramontati. Per farlo è obbligo contrastare le tendenze neoconformiste di giocare l’inquietudine e l’instabilità tutte sulla superficie. Il fatto poi che  quello dei «bamboccioni» sia un fenomeno che prospera soprattutto nel nostro paese è imputabile, oltre che all’economia, anche alle metamorfosi edonistiche subite dal vecchio, e per alcuni aspetti imperituro, familismo italiano.

Piero Stefani

 

 

 

174 – Vecchi film (14.10.07)ultima modifica: 2007-10-13T10:00:00+02:00da piero-stefani
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